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Misurare la tranquillità. Un nuovo indicatore della qualità del paesaggio

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 “Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Così recita la traduzione italiana della Convenzione Europea del Paesaggio, firmata a Firenze nell’ormai lontano 2000.

Oltre dieci anni di studi e progetti hanno però messo in luce quanto sia difficile tenere realmente in considerazione la “percezione” della popolazione, nei percorsi di pianificazione, di valorizzazione o di gestione.

Recentemente, però, l’Observatori del Paisatge de Catalunya, ha pubblicato sul suo sito uno studio relativo agli indicatori di qualità per il paesaggio che, oltre ad accogliere dati e numeri riferiti ai soliti indicatori su ambiente, sostenibilità, valori culturali ed estetici, ecc… riporta uno studio del Centre for Environmental & Spatial Analysis della Northumbria University, relativo al rapporto tra tranquillità e paesaggio.

Landscape and tranquillity (Charles M. Schulz)

Il saggio dal titolo La tranquil·litat com a indicador de la qualitat del paisatge , firmato  da Claire Haggett, Duncan Fuller e Helen Dunsford, evidenzia come la tranquillità, pur essendo uno dei principali fattori che determina la percezione di uno spazio come positivo, non sia mai stata realmente definita e “misurata”.

Lo studio ha quindi cercato innanzitutto di mettere a punto il significato di “tranquillità”, attraverso questionari distribuiti alla popolazione locale.

Il risultato è stata la declinazione del concetto secondo numerose e diverse definizioni: dalla tranquillità come assenza di disturbo sonoro, che permette di “sentire” suoni naturali (il vento nelle foglie,  il canto degli uccelli), ma anche come mancanza di elementi di disturbo fisico (colture, antropizzazione, inquinamento luminoso…), che favorisce la sensazione di essere immersi in un” paesaggio naturale”. Altri hanno sottolineato l’importanza della bellezza della flora e della fauna, e l’influenza  della presenza dell’acqua (fiumi, onde, sciabordii, ecc…), per poter definire la tranquillità di un paesaggio.

Altri ancora  hanno evidenziato come la tranquillità sia un elemento fondamentale della qualità di uno spazio, in quanto aiuta a ”ristabilire l’equilibrio personale”, a “ridurre lo stress”, a raggiungere “un senso di benessere”.

Quiete, pace, calma dunque non solo come assenza di disturbo, ma anche come evasione, solitudine,  contrapposte all’affollamento, alla confusione.

Depictions of tranquillity in the Participatory Appraisal sessions (fonte: CESA, Tranquillity Mapping: Developing a Robust Methodology for Planning Support)

Secondo quanto emerso dai questionari, quindi, gli spazi percepiti come tranquilli hanno tre caratteristiche comuni:

  • una densità di popolazione ridotta,
  • un basso livello di rumore artificiale
  • un paesaggio percepito come naturale, con pochi segni evidenti di antropizzazione.

Elaborando i dati relativi alla presenza/assenza di queste componenti tramite GIS, sono state infine realizzate per la zona oggetto di studio delle cartografie relative alla “tranquillità”.

General overview of the interaction of the positive and negative elements in the model (fonte: CESA, Tranquillity Mapping: Developing a Robust Methodology for Planning Support)

Il progetto ha dimostrato quindi che questa particolare caratteristica, sebbene sia un concetto che mantiene una forte componente di soggettività, può ugualmente essere assunto come indicatore misurabile e utilizzabile nelle valutazioni ambientali e paesaggistiche (al pari degli indicatori per gli impatti visivi, acustici e percettivi), e nella pianificazione, per individuare “aree ad alta tranquillità”, che dunque meritano di essere protette e promosse.

Dovremmo ricordarcene, la prossima volta che partiamo per un tranquillo week-end sugli sci, al mare, in auto, in aereo, in nave, per capire quanto davvero cerchiamo la tranquillità, e quanto noi per primi contribuiamo a mantenerla!

Picknickers, Alex MacLean



“ReThinking a Lot”. Trasformare i parcheggi in parchi

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Nell’immaginario comune  non c’è forse niente di più lontano da un giardino, di una desolata area a parcheggio, completamente pavimentata, impermeabile,  generalmente arroventata  sotto il sole estivo e battuta dalla pioggia e dai venti gelidi nella stagione invernale. Un luogo dove abbandonare l’auto, ma nel quale sostare il più breve tempo possibile.

Eppure i parcheggi  rappresentano oggi uno dei “paesaggi” più comuni e frequentati, sia in ambito urbano che extraurbano.

Alex MacLean, Parking Lot at Disney World Orlando, Florida

Nel suo recente saggio,  Eran Ben-Joseph, professore di Urban Planning all’M.I.T, evidenzia infatti  come “in some U.S. cities, parking lots cover more than a third of the land area, becoming the single most salient landscape feature of our built environment” (Eran Ben-Joseph,  ReThinking a Lot.The Design and Culture of Parking, MIT press, 2012).

Tuttavia  architetti e urbanisti non sembrano prestare grande interesse a questi spazi, che però sono, a tutti gli effetti e nella maggioranza dei casi, spazi pubblici. Numero, funzionalità, distanze minime sembrano essere gli unici parametri degni di nota.

I paesaggisti, invece, non li hanno dati ancora completamente per persi, inserendoli all’interno della lista degli “spazi aperti”, appellativo che nel linguaggio di settore ha ormai preso il posto della semplicistica e inadeguata definizione di “verde urbano”, e che indica tutti quegli spazi vuoti  “entro cui può ancora aver luogo la riproduzione della vita animale e vegetale, sia spontanea che orientata” (Guido Ferrara, Giuliana Campioni, Tutela della naturalità diffusa, pianificazione degli spazi aperti e crescita metropolitana, Il Verde Editoriale 1998).

Parcheggio: “spazio aperto” alla vita animale e vegetale (Foto: http://mammagiramondo.blogspot.com/2009/05/riquewihr-un-gioiello-tra-le-vigne.html)

Partendo allora dal presupposto che anche i parcheggi possono essere spazi vivi, molti sono i modi per tentare di riconcettualizzare il concetto di sosta, ripensando queste anonime aree come occasione per la costruzione di paesaggi urbani, di luoghi pubblici, di spazi di qualità anche dal punto di vista ambientale.

Un esempio ormai famoso è quello realizzato a Berlino dal Büro Kiefer , che ha fatto della ricerca della qualità attraverso la semplificazione, una delle caratteristiche fondanti del proprio lavoro di progettazione.

Nel disegnare un parcheggio comune a servizio di un condominio residenziale, i progettisti scelgono di aggiungere alla semplice funzione della sosta auto, quella del parco giochi, agendo per  sovrapposizione temporale. Le due diverse funzioni sono consentite infatti grazie ad una successione degli usi nelle diverse ore della giornata. I residenti posteggiano la loro auto nel piazzale durante la notte, mentre di giorno il parcheggio si trasforma in campi di calcio, di pallavolo, in un variopinto tabellone di gioco. La dicotomia giardino/autorimessa, gioco/parcheggio che affligge spesso urbanisti e amministratori, viene così ricomposta in un progetto che rifugge gli stereotipi, ricombinandosi in continue forme di contaminazione spaziale e temporale.

Büro Kiefer, Spielparkplatz, Flämingstrasse, Berlin Marzahn

Il paesaggista francese Michel Desvigne ha ampliato ulteriormente la dignità paesaggistica di questi spazi, prospettando l’inserimento  all’interno de “La charte des paysages” del Piano del Verde di Bordeaux, di una sezione dedicata esplicitamente ai parcheggi. Secondo questa visione, le aree (esistenti o future) adibite alla sosta delle auto, dovranno essere sistematicamente alberate, secondo schemi adattabili ai diversi luoghi, così da costituire veri e propri “micro-paesaggi”, e divenendo parte integrante del “sistema dei parchi urbani”.

“La charte des paysages” di Bordeaux. Sistemazione paesaggistica delle aree a parcheggio

Negli Stati Uniti, la fusione dei parcheggi con il concetto di rain garden, ha ulteriormente dilatato il concetto di qualità per le aree di sosta aggiungendo alla valenza paesaggistica, quella ambientale.

I rain gardens sono superfici verdi  realizzate in piccole depressioni del terreno utilizzando specie autoctone, e costruite in modo tale da poter ricevere le acque piovane da superfici impermeabili quali tetti, strade, marciapiedi, ecc… rallentandone la corsa, evitando il ruscellamento e  permettendone il riassorbimento graduale da parte del terreno.

L’utilizzo dei rain gardens per le aree a parcheggio, negli Stati Uniti è stato oggetto di numerosi studi e ricerche da parte di Università e dell’EPA (United States Environmental Protection Agency), che hanno dimostrato l’ estrema funzionalità di questi particolari giardini nella  gestione delle acque piovane.

Rain-gardens and parking lots

I rain gardens  si sono inoltre dimostrati preziosi per il miglioramento dell’inquinamento delle acque urbane, in quanto riescono a filtrare  gli inquinanti (benzina, oli, idrocarburi, metalli pesanti) spesso presenti sulle superfici a parcheggio, migliorando la qualità dell’acqua che ritorna alla falda.

Rinunciando a qualche metro quadrato di sosta, è quindi possibile trasformare i parcheggi urbani in spazi belli e in luoghi utili, non solo per i proprietari di auto.

ReThink a Lot, dunque,  in attesa di iniziare ad applicare al tema altre più importanti e impegnative “R”: ridurre, rivalutare, ristrutturare…


Donne che amano gli alberi

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Non so se l’ecofemminismo abbia ragione: se esista davvero una correlazione tra la condizione di subordinazione della donna e il crescente degrado ambientale.

Se il patriarcato sia l’origine di tutti mali, dallo sfruttamento forsennato di persone e risorse, alla crisi economica in atto, e se, contrariamente, il matriarcato sarebbe la soluzione a tutti i mali.

Certo è che questo 8 marzo, che vede le donne ancora lontane da molti dei traguardi relativi alla parità di genere, disperatamente rinchiuse dentro inaccettabili stereotipi, quotidianamente uccise per “motivi passionali”, mi piacerebbe celebrarlo ricordando tre donne che hanno legato il loro destino agli alberi, simboli della vita, metafora della connessione tra le dimensioni opposte di cielo e terra, sintesi tra maschile e femminile.

Gustav Klimt, L’Albero della Vita

Amrita Devi

In India esiste una leggenda che narra di una donna morta per difendere gli alberi della propria regione, divenendo un esempio di coraggio per suoi contemporanei, e per le generazioni future.

La storia narra che intorno al 1730, il Maharajah Abhay Singh di Jodhpur inviò nel vicino distretto di Khejarli i suoi emissari, con il compito di procurare il legname necessario per la costruzione del suo nuovo palazzo. Amrita Devi si oppose agli uomini del sovrano, abbracciando gli alberi nell’estremo tentativo di difenderli dai tagliaboschi, e finendo così decapitata dalle loro stesse asce. Le tre figlie di Amrita, allora, seguirono il suo esempio, e così altre 363 persone tra uomini, donne e bambini, sacrificandosi tutti per la loro salvezza dei loro alberi.

Si racconta che il Maharajah, allora, impressionato dal coraggio di Amrita e dei suoi compagni, non solo sospese il massacro, ma emise un decreto col quale proibì il taglio degli alberi e l’uccisione degli animali all’interno di quella regione.

Il sacrificio di Amrita Devi e delle sue figlie

 La leggenda di Amrita Devi è arrivata sino ai giorni nostri, e ha ispirato il Movimento Chipko, che negli anni Settanta è stato protagonista di proteste che hanno visto le donne indiane nuovamente mobilitate in difesa degli alberi, contro la deforestazione e la desertificazione. Chipko” è una parola Hindi che significa aggrapparsi, e rievoca la tecnica principale delle manifestanti di abbracciare i tronchi degli alberi destinati all’abbattimento, rifiutando di piegarsi alla logiche della speculazione commerciale.

Nel 1987 alle donne del movimento Chipko è stato assegnato il Nobel per la Pace,  per aver posto la vita delle foreste al di sopra della propria e, per aver affermato, con le loro azioni, l’insensatezza del predominio dell’uomo sugli altri esseri viventi.

The Chipko Movement

Wangari Muta Maathai

Poco conosciuta nel mondo occidentale, forse perché africana, o forse anche perché donna, Wangari Muta Maathai è stata la prima donna africana a conseguire un dottorato, e la prima ad ottenere una cattedra all’Università di Nairobi. Ma la sua opera più importante è stata la fondazione, negli anni Settanta, del Green Belt Movement, una organizzazione non governativa, attraverso la quale ha combattuto i problemi ambientali, e il disboscamento in particolare, piantando oltre 40 milioni di alberi per contrastare la desertificazione, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “signora degli alberi”.

Riteneva infatti che la democrazia potesse essere garantita solo attraverso la protezione dell’ambiente, e amava ripetere che “pace, democrazia e ambiente viaggiano tutti sullo stesso autobus” . (Alberizzi Massimo, Corriere della sera, 27 settembre 2011)

Alla lotta per l’ambiente affiancava inoltre quella per i diritti delle donne, convinta che lo sviluppo del proprio paese passasse anche e soprattutto attraverso l’emancipazione e l’occupazione delle donne africane.

Nel 2004 ha raggiunto infine il suo terzo primato, divenendo la prima donna africana ad aver ricevuto il Premio Nobel per la Pace, assegnatole per «il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace».

Wangari Muta Maathai, la signora degli alberi

L’ultimo personaggio di questa galleria di “donne che amano gli alberi” è Heidi Threlfo, bio-artista australiana che ha messo a punto una sorta di “tree art”, ovvero installazioni ambientali che rievocano le antiche celebrazioni tradizionali degli alberi, tipiche della sua terra. Utilizzando un approccio giocoso l’artista vuole sensibilizzare le persone ai temi ambientali, e suscitare attenzione sui gravi problemi ecologici e culturali del presente.

“Trees have made me a better artist and a more conscious person” scrive nel suo blog (http://heidithrelfo.weebly.com), grazie anche all’esempio di Amrita, che risuona ancora, dopo secoli, in ogni parte del mondo.

A modo suo, infatti, anche Heidi Threlfo abbraccia gli alberi, ricoprendo i loro fusti con materiali vari. In particolare nella installazione  presso i Botanic Gardens di Wellington, in Nuova Zelanda, il materiale scelto per ricoprire i tronchi era costituito da centrini realizzati all’uncinetto e acquistati per pochi centesimi all’usato.

Anche la Threlfo, curiosamente, costruisce infatti un legame tra alberi e condizione della donna, mettendo in parallelo la questione ambientale e il tema del lavoro femminile (i centrini) troppo spesso sottostimato e sottopagato.

Heidi Threlfo, Wellington Botanic Gardens (http://www.flickr.com/photos/carol_green/3302192768/)

Heidi Threlfo (http://heidithrelfo.weebly.com/gallery.html)

Il lavoro di Heidi Threlfo infine, si ricollega  anche al movimento di knit guerrilla (o guerrilla knitting), nato  nel 2005 ad opera di artiste di strada con la finalità di utilizzare il lavoro a maglia, semplice e accessibile a tutti, per abbellire le città.

Un altro movimento femminile che sottovoce, abbracciando, resistendo, sorridendo cerca di cambiare il mondo. 

knit guerrilla

knit guerrilla

Dicono di sé le guerrigliere della maglia: “Siamo donne entusiaste delle nostre convinzioni. Abbiamo forti opinioni e grandi idee nei meandri dei nostri cervelli. Non stiamo solo urlando attraverso il nostro cucire. Dovete ascoltare con più attenzione. Cambiare e rendere il mondo un posto migliore è una cosa che può essere fatta con un sorriso, invece che con una smorfia, con un sussurro invece che strepitando. Quello che facciamo può cambiare il modo in cui le persone guardano il proprio mondo. Come cambiarlo è una cosa che spetta a loro. Questo è il punto. Non c’è bisogno di dirvi cosa vedere nei nostri lavori di cucito. E’ la vostra mente e il vostro mondo. Iniziate a pensare. Noi continueremo a lavorare a maglia” (http://knitthecity.com/why/).

Iniziate a pensare, noi continueremo ad abbracciare gli alberi!

Buon 8 marzo a tutt*!


Panorami: “un guardare che non finisce”

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Ho letto un articolo sui “belvedere” redatto da un giovane scrittore, che mi ha dapprima incuriosito e poi, al termine della lettura, lasciato la voglia di continuare a riflettere, ampliando il corso dei pensieri ad altre questioni. Non è davvero poco per un solo articolo, visti i tempi!

Ho iniziato a leggerlo perché personalmente, ma anche in un’ottica professionale, detesto i “belvedere”.

Detesto forse è una parola grossa, ma certo è che provo diffidenza e tendo a fuggire tutti quei luoghi che concentrano le masse, uniformando le persone e imponendo loro una funzione: dai centri commerciali, ai parchi a tema, agli spazi allestiti “per guardare”.

Niagara viewpoint (http://sarahsviewpoint.blogspot.it/)

Come paesaggista, inoltre, vedo ogni giorno i danni che continua a produrre una visione del paesaggio prevalentemente estetica e vincolistica (tanto cara a molti comitati e associazioni), della quale i “belvedere” sono appunto una delle più tipiche espressioni.

Belvedere: spazi allestiti “per guardare”.( foto di Irpastor http://www.flickr.com/photos/76086141@N03/6883745495/)

Belvedere: spazi allestiti “per guardare”.( foto di Irpastor http://www.flickr.com/photos/76086141@N03/6883745495/)

Amo invece i “panorami”, in particolare quelli che raggiungi dopo ore di camminata in solitaria, o con pochi amici scelti; o anche quelli che, semplicemente, eleggi tali stando comodamente seduto sulla tua panchina preferita, o sull’autobus che ti porta a scuola o al lavoro, regalandoti in quel preciso punto, ogni giorno, un istante di felicità.

Ecco l’importanza dei “paesaggi della quotidianità”, messi in luce dalla Convenzione Europea del Paesaggio, ma così poco compresi dalla legislazione, e dalle nostre amministrazioni. Sono questi i luoghi che, spesso più dei paesaggi eccezionali, risultano fondamentali per il nostro benessere, per la costruzione della nostra identità.

Paesaggi quotidiani, paesaggi di elezione
http://www.comune.torino.it/verdepubblico/2010/altrenews10/prato-fiorito-nella-circoscrizione-2.shtml

Andrea Bajani, l’autore dell’articolo in questione, attraverso i “belvedere” introduce però, tra le sue argomentazioni, un tema ulteriore: una riflessione sul Tutto (l’Infinito di leopardiana memoria?), sulla necessità cioè di imparare sin da bambini che “esiste un guardare che non finisce”.

Parla insomma della vanità del fare chilometri, o dell’aspettare in coda per raggiungere il “belvedere”, sperando di scoprire il punto in cui, in un solo sguardo, poter cogliere il Tutto, o peggio ancora, fotografarlo.

Panorama: un “guardare che non finisce” (foto S.M.)

E parla anche della necessità di lasciare spazio al mistero, e dell’impossibilità di scomporre il Tutto in parti note, concetti sui quali mi trovo assolutamente d’accordo.

Sarà perché vivo la fotografia come una fonte continua di frustrazione per l’impossibilità di catturare davvero i “panorami”. Tanto che mi capita spesso di dimenticare (forse un “atto mancato”), la macchina fotografica a casa, forse per continuare ad allenare lo sguardo e la memoria, o forse per non cedere alle lusinghe di un mezzo che promette molto (ai comuni mortali), ma che riesce spesso a restituire solo pezzi scoordinati di un Tutto.

Sarà che di fronte al “paesaggio” ancora, dopo anni di studio e di lavoro, mi incanto. E pur avendo imparato a studiarlo, a leggerlo e a tradurlo in dati e azioni, sento l’impossibilità di coglierne realmente il mistero.

Sarà perché sempre più spesso, sento il limite di una conoscenza che cataloga, ma non “esperisce”; di uno sguardo che cattura verità oggettive, ma che non sa vedere oltre i dati.

E proprio come Bajani “mi viene in mente la difficoltà di prendere Tutto dentro il pensiero, nella preghiera, e Tutto dentro lo sguardo, sui belvederi, e che star lì al poligono [in inglese fotografare e sparare si dice to shoot ], con la macchina, è come provare a fotografare Dio, o a sparargli, che sono due gesti, che si abbia o meno fede , che si sia credenti o no, che siamo troppo piccoli per fare” (Andrea Bajani, L’importanza di guardare lontano, IoDonna 21 aprile 2012).


Water square. Le infinite possibilità delle piazze d’acqua

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 Piove. Dopo molti mesi in cui non si vedeva una goccia d’acqua (e tutti a lamentarsi) in questo maggio piove quasi ogni giorno (….e tutti di nuovo a lamentarsi!). Colpa dei cambiamenti climatici? Delle scie degli aerei? Dell’anno dei Maya? Non è dato sapere.

Certo è che un po’ di pioggia non dovrebbe più stupirci, perchè ormai da qualche millennio, l’acqua, sotto forma di mari, fiumi, laghi e oceani, è uno degli elementi più comuni, costituendo circa il settanta percento della superficie terrestre.

Il paesaggio del pianeta Terra è dunque prevalentemente un paesaggio d’acqua.

Waterscape: l’acqua, costituisce circa il settanta percento della superficie terrestre.
(http://www.recursos2d.com/2010/11/mapa-del-mundo-con-salpicaduras-de-agua.html)

Ma l’acqua continua evidentemente ad infastidire l’uomo, che quasi ovunque, almeno in ambito urbano, cerca di allontanarla il più rapidamente possibile (sia che si manifesti sotto forma di scarichi o di precipitazioni), per realizzare ostinatamente  paesaggi asciutti.

 Questa abusata pratica, però, in un orizzonte di cambiamenti climatici che vedono, da un lato il manifestarsi di precipitazioni  sempre più intense e concentrate nel tempo, e dall’altro diminuire la quantità annua di pioggia e variare enormemente la disponibilità di acqua nelle diverse stagioni, sembra sempre più un dannoso controsenso.

 Al rischio di inondazioni, infatti, si stanno affiancando altre importanti emergenze: quelle legate alla qualità dell’acqua, ad esempio, ma anche e soprattutto quelle relative alla siccità, sempre più acuta nei periodi estivi, ad ogni latitudine. Immagazzinare l’acqua invece di allontanarla diviene quindi una necessità primaria.

Acqua: una interessante opportunità di trasformazione (Florian Boer, Jens Jorritsma, Dirk van Peijipe, De Urbanisten and the Wondrous Water Square, Rotterdam 2010)

Ma se una strenua opposizione all’acqua continua ad essere preferita ad una disastrosa resa, inizia però a farsi largo una terza via, che vede nella pioggia non solo il nemico da combattere, ma  un alleato prezioso da non  sottovalutare e una interessante opportunità di trasformazione.

 E’ il caso del progetto water squares, interessante idea concepita dal gruppo multidisciplinare olandese capitanato dall’urban designer Florian Boer dello studio De Urbanisten.

 L’idea, raccontata e graficizzata nel libro De Urbanisten and the Wondrous Water Square, parte dal presupposto che sempre più spesso, in molte città del mondo, si verificano inondazioni con conseguenze disastrose, che forse potrebbero essere evitate, o quanto meno ridotte, con semplici ma efficaci soluzioni.

water square

Le molteplici soluzioni per le piazza d’acqua (Florian Boer, Jens Jorritsma, Dirk van Peijipe, De Urbanisten and the Wondrous Water Square, Rotterdam 2010)

Florian Boer e il suo team hanno individuato dunque una possibile soluzione nelle water squares,  piazze che funzionano come parchi giochi, come prati galleggianti, come teatri, e nello stesso tempo possono diventare luoghi dove immagazzinare l’acqua che altrimenti inonderebbe strade e scantinati.

Un’idea semplice per combinare efficacemente ambizioni di resistenza ai cambiamenti climatici e di miglioramento della qualità urbana.

 Ma come funziona una piazza d’acqua?

Nei periodi secchi, l’acqua ovviamente non c’è e gli spazi possono essere utilizzati come parco giochi o campo sportivo.

Durante precipitazioni di media intensità, invece, la piazza viene parzialmente allagata, e l’acqua inviata lentamente verso le fogne.

Nei periodi di piogge intense, infine, l’acqua in eccesso viene dirottata verso la piazza, che diventa un bacino di raccolta e decantazione. Finita la tempesta e ripristinata la capacità di assorbimento del sistema fognario, l’acqua viene lentamente riconvogliata verso il sistema idrico.

water square

Le piazze d’acqua nelle diverse situazioni meteorologiche (http://www.urbanisten.nl/wp/?portfolio=waterpleinen)

In ogni circostanza e in ogni stagione, però, alcuni spazi restano a disposizione dei cittadini, e possono essere diversamente utilizzati a seconda del livello d’acqua presente.

Oltre a creare ambienti piacevoli e ad evitare allagamenti, le water squares sono inoltre efficaci anche nel filtrare e pulire l’acqua, riducendo l’inquinamento delle falde e dei bacini idrici.

water square

I possibili usi nelle varie situazioni meteo (Florian Boer, Jens Jorritsma, Dirk van Peijipe, De Urbanisten and the Wondrous Water Square, Rotterdam 2010)

Dopo anni di studio (la ricerca fu avviata nel 2005 in occasione della Biennale di Architettura di Rotterdam, dal titolo “The Flood”), il 2012 vede finalmente l’inizio della costruzione della prima water square.

 Il progetto, concepito attraverso un intenso percorso di partecipazione con i rappresentanti della popolazione residente e di molte realtà locali, verrà realizzato a Benthemplein, Rotterdam, e terminato presumibilmente entro il 2013.

Benthemplein, Rotterdam (http://www.urbanisten.nl/wp/?portfolio=waterplein-benthemplein)

L’acqua sarà ovviamente la protagonista, organizzata in tre diversi bacini: due più piccoli saranno allagati ogni volta in caso di pioggia, il terzo, più profondo, riceverà l’acqua solo durante piogge di grande intensità, trasformandosi in un piccolo lago.

Il primo passo è stato fatto: non resta che stare a guardare quali saranno i risultati, e le possibili declinazioni delle piazze d’acqua anche alle nostre latitudini.


Le smart cities sono davvero intelligenti? Nuove sfide tra e-governement e e-wast

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L’ultimo appellativo della città moderna, che rimbalza con sempre maggiore frequenza su siti, stampa e saggi di settore, sembra essere quello di “intelligente” (smart city, in lingua anglosassone).

Abbiamo avuto nel recente passato (solo per citarne alcune), città giardino, industriali, postmoderne; città a rete e città arcipelago; città verticali e a macchia d’olio; città nomadi e città dormitorio.

Oggi, grazie alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, è arrivato il tempo delle città intelligenti! Ogni amministratore avveduto non potrà infatti non cogliere l’opportunità di migliorare l’efficienza, la sostenibilità e l’accessibilità del proprio territorio amministrato, offerta da questi rivoluzionari strumenti.

Smart city: tecnologie al servizio della città (Fonte: sito IBM http://www-03.ibm.com/innovation/us/thesmartercity/index_flash.html)

Ma che cos’è una smart-city? Wikipidia la definisce “ un ambiente urbano in grado di agire attivamente per migliorare la qualità della vita dei propri cittadini (…) grazie anche all’impiego diffuso e innovativo delle ICT (Information and Communication Technology), in particolare nei campi della comunicazione, della mobilità e dell’efficienza energetica”.

L’idea è dunque quella di rendere le nostre città “digitali”, e quindi maggiormente integrate, innovative, aperte alla partecipazione, specialmente nei settori chiave quale ambiente, economia, mobilità, servizi.

Diversi sono i modi per raggiungere lo status di “città intelligente”. I principali sono il potenziamento dell’e-government (gestione digitalizzata dell’amministrazione pubblica, al fine di migliorarne l’efficienza, i servizi, la trasparenza, ecc…), e l’attivazione dell’e-participation, un modello di partecipazione on-line, capace di promuovere il dialogo tra cittadini e istituzioni, migliorando la comunicazione e l’accessibilità alle informazioni, e potenziando la discussione e il confronto su tematiche specifiche o previsioni attuative.

word cloud smart city jam

Per questi motivi si parla anche di wiki-città, di un tentativo cioè di mobilitare l’intelligenza delle comunità, per attuare modelli di governance collaborativa.

L’obiettivo sarebbe l’avvento di quella che Alberto Cottica ha definito wikicrazia, l’azione del governo ai tempi della rete (A.Cottica, Wikicrazia, Navarre ed. 2010): mettere cioè le capacità dei cittadini al servizio della comunità, attivando una “intelligenza collettiva” fatta della collaborazione e della creatività di migliaia di persone, con un valore complessivo maggiore della somma delle singole intelligenze.

Il progetto Wikitalia: “mobilitare l’intelligenza collettiva delle comunità civiche e incalanarla verso fini comuni” (http://www.wikitalia.it/)

L’orizzonte che si profila è certamente interessante: minori emissioni, qualità dell’ambiente, servizi efficienti, ampliamento degli spazi di partecipazione, trasparenza, responsabilizzazione dei cittadini, democrazia allargata.

Tutti elementi capaci probabilmente di produrre un cambiamento rivoluzionario del nostro ambiente urbano, pari almeno a quello dell’avvento dell’era industriale.

 Una smart city, però, ha bisogno dell’appoggio di una “smart community”, cioè di un insieme connesso di cittadini, associazioni, centri oprativi e di ricerca, ecc… capaci di interagire nella rete globale, mediante l’utilizzo di personal computer, smartphone, e dispositivi sempre nuovi, sempre più efficienti, di “ultima generazione”.

 Con l’avanzare della tecnologia, però, se da un lato aumenta il numero e il tipo di dispositivi elettronici disponibili, dall’altro cresce la quantità di strumenti obsoleti che necessitano di smaltimento.

La durata media di molti nuovi apparecchi elettronici (smartphone, tablet, ecc..) è infatti in continua diminuzione, a causa di una obsolescenza reale, dovuta al rapidissimo progresso tecnologico, ma anche di una obsolescenza percepita, indotta da produttori, pubblicità e mass media.

La discarica digitale (a collaboration between Infographic, GOOD and Column Five Media)

La crescita inarrestabile dell’e-waste, e l’assenza di una legislazione chiara ed efficace, induce  quindi molti paesi a preferire al riciclo e allo smaltimento (costoso e legale), l’invio nei paesi in via di sviluppo della crescente montagna di rifiuti elettronici (più economico e talvolta “irregolare”).

Attraverso il meccanismo della “donazione”, infatti, molti paesi produttori riescono ad aggirare la legislazione internazionale, e ad inviare nei paesi poveri montagne di materiale elettronico rotto o inutilizzabile.

Mentre dunque le nostre città diventano sempre più “intelligenti”, sane ed ecologiche,  in altre parti del mondo crescono i problemi ambientali e di salute collegati al non corretto smaltimento di rifiuti in parte tossici, e nascono schiere di nuovi schiavi (spesso bambini) addetti all’estrazione di metalli e componenti pregiate (come ha evidenziato nel 2010 il rapporto dell’UNEP - United Nations Environment Programme).

Africa, India e Cina sono i principali paesi nei quali finisce la nostra spazzatura digitale (http://hazards.org/images/h109recyclingpoisons.jpg)

Ma se il significato etimologico della parola intelligenza è la facoltà di “leggere dentro” ovvero di “leggere oltre la superficie”, impossibile pensare di applicarla ad una realtà incapace di cogliere le relazioni tra le cose, di vedere i rapporti di causa-effetto, di comprendere l’insostenibilità globale del proprio agire.

Se le nostre città vorranno definirsi davvero intelligenti, non potranno dunque fermarsi all’attuale livello di autoreferenzialità, continuando ad ignorare l’immenso debito ecologico che abbiamo con il Sud del mondo.

E nemmeno potranno porsi passivamente come il territorio di conquista di abili venditori di sogni, ma dovranno fare lo sforzo di costruire strategie e visioni nuove,   che nessuno strumento, per quanto moderno e intelligente, può regalare.

Gli smart citizens, infine, dovranno farsi carico della propria responsabilità personale riguardo al ricambio ossessivo dei dispositivi elettronici, imparando a liberarsi dai diktat del mercato e della pubblicità, e riscoprendo il significato dei termini riciclo e riuso, fondamentali per affiancare al concetto di intelligenza quelli di giustizia e di uguaglianza.

Altrimenti cambiamo aggettivo, e chiamiamole città miopi.


“Esto_no_es_un_solar”: liberare spazi abbattendo preconcetti

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La lottizzazione, ovvero la frammentazione di un terreno in lotti, per ricavarne aree da destinare alla edificazione, è da sempre uno dei fulcri della pratica urbanistica, e prevede una utilizzazione del suolo che garantisce essenzialmente il vantaggio economico  dei proprietari.

 Le città moderne sono cresciute molto spesso attraverso questo semplice meccanismo, che ha guardato al territorio come ad una infinita scacchiera dove inserire nel tempo i volumi necessari allo sviluppo urbano.

Lottizzazione (foto di Alex McLean)

I lotti, inoltre, sono divenuti nel tempo una merce in mano ai “mercanti di terreni”, il cui “interesse per il completamento dell’iniziativa cade non appena la maggior parte dei lotti è stata venduta ed è stata intascata la differenza fra il valore dei terreni divenuti edificabili e quello agricolo originario” (Ministero dei Lavori Pubblici, Direzione Generale dell’Urbanistica, Indagine sulle lottizzazioni, Roma, 1968).

Ancora oggi troppo spesso “valorizzare significa lottizzare”, come ha sottolineato Edoardo Salzano in un recente convegno svoltosi a Cagliari, in una crescente confusione semantica tra  valorizzazione intesa come sfruttamento e mercificazione del territorio e valorizzazione in un’ottica di  tutela attiva dei paesaggi e dei patrimoni.

Contro questa mistificazione la Municipalità di Saragozza  ha avviato nel 2009 un Progetto di Riqualificazione Urbana del tessuto storico, partendo proprio dai “lotti” (in disuso, degradati, “vuoti”) presenti nelle aree centrali della città per innescare una pratica virtuosa di “riuso” e di creazione di nuovi spazi pubblici “transitori”.

Il progetto si presenta infatti con uno slogan che attesta immediatamente la volontà di un cambiamento di visuale: “Estonoesunsolar” (ovvero “Questononèunlotto”) è il motto che esprime la contrapposizione dialettica con la prassi consolidata, e ribalta la logica secondo la quale un “lotto” è invariabilmente sinonimo di “area edificabile”.

“Estonoesunsolar”: localizzazione dei lotti realizzati (http://estonoesunsolar.wordpress.com/)

Basta cambiare lo sguardo, ed ecco che un “vuoto” diviene non più assenza, ma possibilità, non più problema, ma risorsa. E l’attesa di future destinazioni, può essere riempita da usi quotidiani, da spazi di vita, secondo le logiche di una “urbanistica spontanea”, non progettata.

Semplice ma rivoluzionario: se le cose non sono sempre quello che sembrano (questo_non_è_un_lotto), la proprietà può essere ceduta temporaneamente, l’urbanistica può uscire dai rigidi confini delle regole e i lotti possono essere riempiti non solo con il cemento, ma anche con servizi di quartiere e spazi urbani.

Giardino botanico e muro verde (http://estonoesunsolar.wordpress.com/)

I progettisti Patrizia Di Monte e Ignacio Gravalos hanno inoltre identificato proprio nell’indeterminatezza dei vuoti, la possibilità di dare risposta, anche se temporanea, a diverse aspettative e nuovi desideri, cogliendo  le potenzialità inespresse del non-costruito.

Salotto urbano e giochi per bambini (http://estonoesunsolar.wordpress.com/)

Il precorso di realizzazione di ciascuno spazio si è svolto essenzialmente in tre fasi:

  • la cessione temporanea da parte dei proprietari dei lotti inutilizzati;
  • l’analisi delle esigenze del quartiere in termini di spazi pubblici e servizi;
  • la definizione del progetto attraverso forme di partecipazione della popolazione residente.

 Al percorso di riqualificazione urbana è stato poi affiancato anche un Piano di Occupazione per il reinserimento nel mondo del lavoro di persone disoccupate, grazie al quale è stato possibile assumere circa 110 operai che hanno eseguito, nell’arco di circa 2 anni, i lavori di realizzazione di 28 lotti. I tempi di realizzazione sono stati così estremamente rapidi ed i costi contenuti, grazie anche al ricorso a materiali riciclati per gli arredi e le finiture, vista la natura temporanea degli spazi progettati.

Un gruppo di lavoratori coinvolti nella realizzazione del progetto (http://estonoesunsolar.wordpress.com/)

La piazza-teatro (http://estonoesunsolar.wordpress.com/)

Infine ogni “vuoto urbano” è stato assegnato ad una associazione, a un ente, o ad una scuola che si sono incaricati della sua gestione, contribuendo anche in questo modo alla sostenibilità economica del percorso di riqualificazione.

 “Estonoesunsolar”: quante cose in un solo nome, e quanti vantaggi sforzandosi di cambiare punto di vista!


The Florentine Declaration on Landscape: from the monument to the people

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Si è concluso ieri il Convegno internazionale UNESCO dal titolo“The International Protection of Landscapes” , svoltosi nei giorni scorsi a Firenze in occasione del 40° anniversario della prima Convenzione Mondiale del Patrimonio.

Il convegno, organizzato dall’International Traditional Knowledge Institute (ITKI), ha posto l’accento su quella che Pietro Laureano (presidente dell’ITKI e consulente UNESCO) ha definito una “nuova visione del paesaggio” che sposta finalmente l’ottica “dai monumenti alle persone”.

La cornice entro cui si sono svolte le giornate di studio è infatti quella dell’evoluzione che ha avuto negli ultimi quarant’anni il concetto di “cultural heritage”, a partire proprio dalla Convenzione UNESCO sulla Protezione del patrimonio culturale e naturale del 1972.

Convegno internazionale UNESCO “The International Protection of Landscapes”

Nel tempo, infatti è apparsa con sempre maggiore evidenza, l’impossibilità di proteggere i “patrimoni culturali” separatamente dall’ambiente in cui si trovano, ignorando i saperi e le pratiche che li hanno generati, trascurando così i profondi legami esistenti tra “natura” e “cultura”.

Come è stato infatti evidenziato in molti degli interventi, sono le culture, le conoscenze, le tradizioni, i gesti simbolici che danno forma al mondo che viviamo: siamo quindi contemporaneamente trasformati dal paesaggio che trasformiamo.

Questo aspetto era già stato evidenziato nel 2003 nella Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale che ha messo in rilievo come “il patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in funzione del loro ambiente, della loro interazione con la natura e la loro storia, e dà loro un senso d’identità e di continuità, promovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”.

Risulta dunque evidente come paesaggio e patrimonio immateriale siano intimamente legati, in quanto sono i saperi, le conoscenze, le abilità delle popolazioni che hanno dato e danno forma al paesaggio. E conseguentemente nel paesaggio, come in un palinsesto in continua evoluzione, possiamo leggere le tracce di quei racconti e di quelle memorie, possiamo scorgere i segni e le rappresentazioni che costituiscono il fondamento dell’appartenenza a un luogo.

The New Landscape Vision: from the Monument to the People (Pietro Laureano)

Non possiamo sperare dunque di salvaguardare patrimoni e paesaggi se non siamo capaci di conservare, ridare attualità e rinnovare quelle conoscenze tradizionali (dall’architettura alla agricoltura), che le comunità hanno sviluppato nel tempo, come “espressione sapiente, responsabile e sostenibile del proprio rapporto con l’ambiente” (ITKI).

Per questo nel corso del congresso è stato presentato da Ipogea, in collaborazione con UNESCO, il prototipo di una piattaforma che ospiterà la Banca Mondiale dei Saperi Tradizionali (Traditional Knowledge World Bank –TKWB – http://www.tkwb.org/web/?page_id=4), un database in continua evoluzione che, utilizzando strumenti open source e incentivando i contributi di tutti, mira a censire, descrivere, tutelare e disseminare gli antichi saperi e il loro uso innovativo, quale patrimonio culturale condiviso.

TKWB – Iconographic System of Traditional Techniques and Innovative use (List of icons)

Altro punto nodale evidenziato nel corso delle giornate di studio, è la necessità di superare la mancanza di integrazione tra le varie convenzioni e i diversi strumenti giuridici (anche in ambito UNESCO), relativi alla salvaguardia del paesaggio.

Spesso siamo infatti in presenza di strumenti che concentrano il concetto di tutela su un singolo aspetto (ecosistemico, storico culturale, ecc….), tralasciando la complessità e la multidimensionalità del paesaggio.

Il convegno si è quindi concluso con quella che è stata definita, in accordo con tutti i presenti, “The Florentine Declaration on Landscape”, ovvero un documento volto a:

-       promuovere la salvaguardia dei paesaggi, quale elemento integrato di uno sviluppo sostenibile;

-       rendere possibile la condivisione di informazioni e la disponibilità delle competenze;

-       stabilire collaborazioni efficaci;

al fine di preparare la strada alla redazione di una Convenzione Internazionale sul Paesaggio che, nel rispetto delle diversità culturali dei vari paesi, sappia integrare e rinforzare azioni condivise per il  paesaggio.

“The Florentine Declaration on Landscape”: il testo “in progress” distribuito al termine del convegno

Il testo della Dichiarazione contiene ancora alcuni concetti che hanno ormai evidenziato limiti e inadeguatezze (protezione, sviluppo sostenibile, ecc…), ma ha anche introdotto all’interno della discussione sul paesaggio argomenti nuovi, quali appunto le conoscenze tradizionali e i patrimoni immateriali, ma anche il diritto delle comunità a preservare le proprie risorse.

Peccato invece per l’omissione di temi di fondamentale attualità, quali l’importanza dell’educazione al paesaggio; la necessità di cogliere e studiare le nuove identità nascenti legate ai paesaggi del contemporaneo; l’opportunità di confrontarsi con le nuove sfide poste dal paradigma della decrescita, abbandonando l’abusato e deleterio anelito allo sviluppo, per quanto sostenibile.

Ma rimane il fatto che un cammino importante è stato intrapreso: vedremo dove ci porterà la strada.



Hope e Will: favola bella di un giardino rinato

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Ci sono storie che fanno bene al cuore, e che si vorrebbe veder pubblicate su ogni quotidiano, anche solo come riposante intermezzo tra le vicende di un politico corrotto, le quotazioni sempre in calo delle borse e le funeste previsioni riguardo al nostro imminente futuro.

Ma a raccontarle, queste storie, si rischia che la principessa venga rinchiusa nella torre, che il fidato scudiero venga bandito dal regno e che il giardino incantato torni ad essere una selva oscura, così ci si deve accontentare di trasformarle in favole, da raccontare la sera ai bambini, per rassicurarli che ancora, talvolta, il bene riesce a prevalere sul male, la giustizia sulla legge, il buon senso sulla stupidità.

Dunque…c’era una volta a Firenze un grande giardino monumentale che, abbandonato per anni, era andato in rovina, trasformandosi in uno spazio trascurato e incolto.

The secret garden, illustrated by Inga Moore

Nessuno se ne curava, né i proprietari, che avrebbero voluto abbattere tutti gli alberi e pavimentarlo per risparmiare sulla manutenzione; né il Comune, contento di non averlo (almeno quello!) sulla propria lista spese, né i fiorentini, sempre troppo di fretta, quando gli sfrecciavano accanto con le loro auto, per accorgersi che il giardino stava morendo, assieme ad un altro pezzo della loro storia.

Un giorno, da un paese lontano, arrivò Hope (la chiameremo così),  giunta a Firenze per studiare le opere di una famosa poetessa che quel giardino aveva così amato, da scegliere di rimanervi per sempre.

Hope ne divenne la custode, ma non si dava pace del fatto, ai suoi occhi inconcepibile, che un luogo tanto bello fosse stato abbandonato, nel completo disinteresse generale.

Ma una mattina, ad un semaforo appena fuori dal giardino, Hope vide un “viandante”, un’anima nomade (lo chiameremo Will)  che per sopravvivere chiedeva l’elemosina agli automobilisti che a quell’angolo di strada arrestavano per un istante la propria corsa, prima di scappare via di nuovo, incuranti di lui, della disperazione di Hope e della rovina del giardino.

A Will mancava un lavoro, a Hope serviva un aiuto: fu quindi naturale ritrovarsi fianco a fianco nel giardino, intenti a togliere erbacce, piantare fiori, restaurare arredi, muretti e percorsi.

The secret garden, illustrated by Inga Moore

Nei giorni seguenti Will presentò a Hope altri viandanti suoi amici, ma Hope aveva solo la propria pensione da offrire, e le poche donazioni di vecchi e lontani amici del giardino.

I nomadi accettarono ugualmente di lavorare e di mettere a disposizione il proprio entusiasmo e le tante competenze, e in cambio chiesero a Hope di insegnare a loro e ai loro figli a leggere e a scrivere.

Il patto fu siglato: ed era cosa tra gentiluomini, chè di contratto di lavoro non si poteva parlare, perché i viandanti non avevano dimora fissa, né molte delle altre cose importanti che servono per poter lavorare e pagare le tasse.

The secret garden, illustrated by Inga Moore

Il giardino in breve rifiorì e tornò alla vita: forse non proprio come la Soprintendenza avrebbe prescritto e approvato, ma sempre meglio dello stato di abbandono in cui sarebbe senza dubbio rimasto aspettando disposizioni,  firme, bolli, fondi e interventi da parte dell’Amministrazione o dello Stato.

Oggi Hope è felice, perché il “suo” giardino (e di tutti i fiorentini) è finalmente tornato a vivere. Ma come ha fatto a compiere il miracolo non può raccontarlo a nessuno. E nemmeno di Will e dei suoi amici. Ed è un vero peccato!


FLORENS 2012: l’autogol del giardino degli ulivi

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E’ in corso in questi giorni a Firenze la terza edizione di FLORENS 2012, la Biennale internazionale dei Beni Culturali e Ambientali. Si parlerà, ovviamente, anche di paesaggio, e per l’occasione è stato allestito in Piazza San Giovanni, “un’installazione di decoro urbano con oltre 70 ulivi secolari, disposti a scacchiera, in armonia con le linee del Battistero e della Piazza”.

Ed è stato scelto proprio l’ulivo secolare “come caratteristica del paesaggio rurale e come antitesi al temporaneo e all’effimero”.

Ma a ben guardare non c’è nulla di più “temporaneo ed effimero” di questa installazione.

Florens 2012: il giardino degli ulivi ((fonte Corriere Fiorentino http://corrierefiorentino.corriere.it/fotogallery/2012/10/ulivi/giardino-ulivi-duomo-2112527458516.shtml#4)

Flores 2012: il giardino degli ulivi (fonte Corriere Fiorentino http://corrierefiorentino.corriere.it/fotogallery/2012/10/ulivi/giardino-ulivi-duomo-2112527458516.shtml#4

Non è dato sapere infatti dove siano stati presi i settanta olivi centenari, né come siano stati trasportati, né quale impatto avrà sul loro “benessere” questa trasferta cittadina, ma non importa. Saranno stati tutti sicuramente “salvati” da un destino incerto o da una morte certa (ma sarebbe bene verificare!).

Quello che lascia allibiti, però, è la scelta (totalmente incongruente con le finalità dichiarate della Biennale) di utilizzare proprio l’emblema di una miope e ottusa pratica (quella dell’espianto appunto di ulivi secolari, destinati a giardini di villette, a rotonde spartitraffico o a banali installazioni pseudo-artistiche), per  promuovere la “salvaguardia della propria cultura e della propria identità paesaggistica”.

Olivi potati ed espiantati per essere trapiantati altrove (fonte: Pina Catino, http://www.ilportaledelsud.org/ulivo.htm)

Negli anni passati, infatti, per tentare di spezzare la tratta degli ulivi secolari e la depredazione dei paesaggi agricoli del Sud, è sceso in campo anche il FAI (Fondo Ambiente Italiano), che ha raccolto adesioni per sottoporre il problema all’attenzione dell’Unesco e ottenere così la dichiarazione di patrimonio dell’umanità per questi alberi.

 Nel 2007, invece, la Regione Puglia, per arginare il fenomeno dei  Tir carichi di ulivi pugliesi e calabresi estirpati e spediti in tutta Italia,  ha emanato una legge  (LR n,14/2007) per la tutela e la valorizzazione degli alberi di  ulivo secolari e plurisecolari,  “considerati nella loro dimensione produttiva, di difesa ecologica ed idrogeologica nonché elementi peculiari e caratterizzanti del paesaggio regionale”.

La piana degli olivi secolari di Ostuni (Fonte: http://forum.monopolizzando.it/san-nicola/topic600.html)

 

Perché dunque questa scelta quanto meno inopportuna? Ignoranza? Autolesionismo? Non è dato sapere.

Certo, da quello che si legge, la cosa importante per gli organizzatori, era fare passare l’altissimo messaggio che l’olivo in quanto “caratteristica del paesaggio rurale e come antitesi al temporaneo e all’effimero (…) assomiglia all’uomo che non dovrebbe mai spingersi troppo oltre i confini temporali che gli sono assegnati, casomai la memoria rimarrà più a lungo, come a lungo rimane quella degli alberi”. http://www.fondazioneflorens.it/52-il-giardino-degli-ulivi%E2%80%A8/?ref=mercoledi-7

 Chapeau!

Quello che ci auguriamo, invece, è che gli ulivi dimentichino in fretta, e con loro i fiorentini e i numerosi ospiti della biennale, di fronte ai quali si è persa l’ennesima occasione per fare qualcosa di realmente utile per il paesaggio, contro il temporaneo e l’effimero.

 


La fine del mondo e la politica della felicità

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Oggi, nel giorno della presunta fine del mondo, l’Occidente ha perso l’ennesima occasione di porsi in ascolto di culture altre.

Ha preferito lasciarsi andare all’isteria, oppure tentare di distorcere, ridurre a folklore o deridere la cultura Maya, senza preoccuparsi di approfondire la saggezza ancestrale che lega questo popolo alla natura e al proprio ambiente; o la concezione ciclica del tempo, che vede nell’ Oxlajuj B’ak’tun la fine di un periodo oscuro e l’inizio di un ciclo di luce di 5.125 anni, che segnerà il rifiorire della conoscenza, delle arti, della cultura e della spiritualità dei Maya, e forse di tutto il mondo.

L’inizio della nuova era, che si è compiuto oggi 21 dicembre 2012 con la nascita del sole, rappresenta infatti secondo i Maya “il tempo per rafforzare la saggezza ancestrale, la pratica e la ricerca permanente dell’equilibrio; un momento di trascendenza, per elevare la coscienza degli esseri umani e riconoscerci come tali, per raggiungere l’intesa collettiva”, e per “fare in modo che l’essere umano sia davvero umano, in equilibrio con il cosmo e la Madre Terra” (Consejo Del Pueblo Maya De Occidente “Por la defensa de la vida y el territorio”, 30 novembre 2012).

Quetzal foto 4 pagina

Ma l’Occidentale è da sempre troppo concentrato su se stesso per ammettere che esistano altri popoli e altre culture che abbiano qualcosa da dire, un contributo da portare e forse anche qualche soluzione da proporre.

Come ha infatti sottolineato il premio Nobel Rigoberta Menchù in un suo discorso all’ONU,

“Gli indigeni non sono ancora ascoltati con attenzione. Ascoltateli: è quello che desiderano perchè hanno conservato tanti valori controcorrente. Eppure nei vostri paesi nascono ancora istituti universitari per studiare gli indigeni. Noi non siamo e non vogliamo essere una “specie protetta” (…). Noi non siamo farfalle, siamo esseri umani pensanti. Perchè non si accetta l’idea che i popoli indigeni potrebbero, a loro volta, insegnare qualcosa al mondo di oggi? “ (Rigoberta Menchú, Rigoberta: i Maya e il mondo, Giunti 1997).

Guatemala. Celebrazioni per Oxlajuj B’ak’tun

Guatemala. Celebrazioni per Oxlajuj B’ak’tun

E sempre dall’America del Sud arrivano altri segnali di cambiamento: nuove idee di economia, politica, giustizia, felicità

Di “valori controcorrente” è infatti pieno anche il discorso tenuto nel giugno 2012 dal Presidente dell’Uruguay Josè Mujica al G20 in Brasile, dove invece tutto il mondo occidentale si è trovato ancora una volta d’accordo sul fatto che l’unica soluzione per rilanciare l’economia mondiale sia sempre e solo la ripresa della crescita.

Il Presidente dell’Uruguay Josè Mujica. Fonte: http://www.laprensa.hn

Il Presidente dell’Uruguay Josè Mujica. Fonte: http://www.laprensa.hn

Trascrivo il discorso in maniera integrale, con l’augurio che abbiano ragione i Maya, e che il 21 dicembre 2012 segni davvero il cambiamento di un’era, verso una direzione che noi occidentali non riusciamo più a trovare, e che altre culture, altri modelli, altre politiche iniziano ad indicarci.

“Autorità presenti di tutte le latitudini e organismi, al popolo del Brasile, e alla sua signora Presidente e molte grazie alla buona fede che sicuramente hanno manifestato tutti gli oratori che mi hanno preceduto ed esprimiamo l’intima volontà, come governanti, di accompagnare tutti gli accordi che questa nostra povera umanità possa sottoscrivere e che senza dubbio ci permettono di farci alcune domande a voce alta: per tutta la sera si è parlato di sviluppo sostenibile, di tirare fuori masse immense dalla povertà. Che cos’è che ci svolazza in testa? Il modello di sviluppo e di consumo attualmente è quello delle società ricche. Mi domando: cosa succederebbe a questo pianeta se gli Hindu avessero la stessa proporzione di auto per famiglia che hanno i tedeschi? Quanto ossigeno ci resterebbe per poter respirare? Più chiaramente: il mondo oggi ha gli elementi materiali per rendere possibile che 7-8 miliardi di persone possano avere lo stesso grado di consumo e di spreco che hanno le più opulente società occidentali? Sarà possibile? O dovremo fare un giorno un altro tipo di discussione? Perché abbiamo creato una civilizzazione, quella in cui siamo, figlia del mercato, figlia della concorrenza e che ha prodotto un progresso materiale portentoso e esplosivo. Però quello che era economia di mercato ha creato società di mercato! E ci ha prodotto questa globalizzazione, che significa guardare a tutto il pianeta! Stiamo governando la globalizzazione o la globalizzazione governa noi ? E’ possibile parlare di solidarietà e che “siamo tutti uniti”, in un’economia basata sulla concorrenza spietata? Fino a dove arriva la nostra fratellanza?

Nulla di questo lo dico per negare l’importanza di questo evento, no è il contrario!
La sfida che abbiamo davanti è di una portata colossale e la grande crisi … non è ecologica, è politica! L’uomo non governa oggi la forze che ha scatenato; fino a quando le forze che ha scatenato governano l’uomo e la vita! Perché non veniamo sul pianeta per svilupparci in termini generali, veniamo alla vita cercando di essere felici. Perché la vita è corta e ci va via. E nessun bene vale come la vita, e questo è elementare. Però se la vita mi va a sfuggire, lavorando e lavorando per consumare un “plus”, e la società del consumo è il motore! Perché, in definitiva, se si paralizza il consumo, o se si ferma, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia, è il fantasma della stagnazione per ognuno di noi. Però questo iper-consumo a sua volta, è quello che sta assalendo il pianeta! E deve generare, questo iper-consumo, cose che durano poco, perché si deve vendere tanto! E una lampadina elettrica non può durare più di 1000 ore accesa. Ma ci sono lampadine che possono durare 100.000… 200.000 ore! Però queste non si possono fare! Perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo avere una civilizzazione di uso e smaltimento! E siamo in un circolo vizioso!
Questi sono problemi di carattere politico! Che ci stanno indicando la necessità di iniziare a lottare per un’altra cultura. Non si tratta di tornare all’uomo delle caverne, né di avere un “monumento dell’arretratezza”. E’ che non possiamo indefinitamente continuare ad essere governati dal mercato , ma che dobbiamo governare il mercato!
Per questo dico che il problema è di carattere politico… e nel mio umile modo di pensare
. Perché i pensatori antichi definivano, Epicuro, Seneca, gli Aymara , “Povero non è chi possiede poco, ma veramente povero è chi necessita infinitamente tanto”. .. e desidera, e desidera… e desidera sempre di più.
Questa è una chiave di carattere culturale.
Quindi saluto lo sforzo e gli accordi che si fanno. E lo accompagno, come governante. Perché so che alcune delle cose che sto dicendo “stridono”. Però dobbiamo renderci conto che la crisi dell’acqua, che la crisi dell’aggressione ambientale, non è una causa. La causa è il modello di civilizzazione che abbiamo costruito. E ciò che dobbiamo rivedere è il nostro modo di vivere!
Perché! Appartengo ad un piccolo paese, molto ben dotato di risorse naturali per vivere. Nel mio paese ci sono 3 milioni di abitanti, poco più, 3 milioni e 200mila. Però ci sono 13 milioni di vacche delle migliori al mondo! E un 8-10 milioni di ovini stupendi! Il mio paese è esportatore di cibo, di latticini, di carne. E’ una pianura, quasi il 90% del suo territorio è utilizzabile.

I miei compagni lavoratori lottarono molto per le 8 ore di lavoro e ora stanno ottenendo 6 ore! Però chi ottiene 6 ore ottiene due lavori pertanto lavora più di prima. Perché? Perché deve pagare un mucchio di rate: il motorino che ha comprato.. l’automobilina che ha comprato.. E paga rate! E paga rate! E quando arriva ad estinguere è un vecchio reumatico come me, e la vita gli va via!
E uno si fa questa domanda: è questo il destino della vita umana?

Queste cose sono molto elementari. Lo sviluppo non può essere contro la felicità! Deve essere a favore della felicità umana!

Dell’amore!

Della terra!

Delle relazioni umane!

Di prendersi cura dei figli!

Di avere amici!

Di avere l’elementare!

Precisamente. Perché questo è il tesoro più importante che hanno. Quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente si chiama: la felicità umana. Grazie”.

(Fonte: http://pacheramanda.wordpress.com/2012/12/09/il-miglior-discorso-del-mondo-presidente-jose-mujica/)

Guarda il video su Youtube: http://www.youtube.com/watch?v=8OPCPmirQFc&feature=player_embedded


Cambiamenti climatici e nuovi paesaggi: il caso delle foreste pop-up

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Fino dalle elementari  ci hanno insegnato  che la “tundra” è una  formazione vegetale tipica delle regioni artiche, caratterizzata dalla mancanza di alberi, la cui crescita risulta impossibile a causa delle temperature troppo basse, che mantengono il suolo perennemente ghiacciato (il cosiddetto permafrost).

Uniche presenze vegetali: muschi, licheni e qualche basso cespuglio, misero cibo per gli sfigati lemming e per le renne, che sole contribuivano (grazie all’evocazione del gioioso clima  natalizio),  a  renderci un po’ più  allegro il desolato quadro d’insieme illustrato nel sussidiario.

Mappa della tundra:  ecozona tipica delle regioni Artiche del Nord America e dell’Eurasia (Fonte: http://arcticstudies.pbworks.com/w/page/13623330/Tundra)

Mappa della tundra: ecozona tipica delle regioni Artiche del Nord America e dell’Eurasia (Fonte: http://arcticstudies.pbworks.com/w/page/13623330/Tundra)

Da qualche tempo però non è più così! Uno studio condotto da scienziati del Biodiversity Institute dell’Università di Oxford e dell’Arctic Center dell’Università degli Studi della Lapponia, ha evidenziato la crescente presenza di alberi in aree dove appena qualche decennio fa era inimmaginabile anche solo pensare di trovarli.

I cambiamenti climatici, ed in particolare il riscaldamento globale, hanno infatti dato origine ad un curioso fenomeno che è stato definito “pop-up forests”: grazie alle temperature sempre meno rigide, i piccoli cespugli di salice ed ontano presenti nella tundra, si sono rapidamente trasformati in alberi, dando origine a veri e propri boschi e stravolgendo studi e previsioni degli scienziati.

“La velocità e l’entità della variazione osservata è molto più grande di quanto ci aspettassimo”, ha dichiarato infatti il professor Bruce Forbes del Centro Artico dell’Università della Lapponia. Contemporaneamente il dottor Marc Macias-Fauria presso la Oxford University, ha sottolineato che in passato si era ipotizzato “che la tundra sarebbe stata colonizzata dagli alberi della foresta boreale del sud dell’Artico col procedere del riscaldamento globale, un processo che avrebbe potuto richiedere secoli. Ma quello che abbiamo trovato è che gli arbusti che sono già  presenti si stanno trasformando in alberi nel giro di pochi decenni. (Andrew C. Revkin , Warming Arctic Tundra Producing Pop-Up Forests, http://dotearth.blogs.nytimes.com/2012/06/03/warming-arctic-tundra-producing-pop-up-forests/)

L’elemento più sorprendente che emerge dallo studio è dunque la rapidità degli ecosistemi posti nelle regioni dell’estremo Nord, di reagire localmente ai cambiamenti climatici globali, innescando a loro volta fenomeni nuovi che riguardano una serie interrelata di fattori, la cui evoluzione è difficile da prevedere.

tundra

Cambiamenti nella tundra siberiana negli ultimi 40 anni (Fonte: http://www.climatewatch.noaa.gov/article/2012/shrub-takeover-one-sign-of-arctic-change)

L’insorgere dei boschi, infatti, non cambierà solo il paesaggio, ma è possibile che possa contribuire ad alterare in modo significativo le condizioni biotiche e abiotiche all’interno della regione.

L’estensione della superficie coperta da latifoglie, infatti, verosimilmente porterà ad un ulteriore riscaldamento locale, a causa dell’assorbimento della luce solare, che in precedenza veniva riflessa dalla bianca tundra, da parte delle chiome scure degli alberi. Allo stesso tempo, però, l’estendersi delle foreste, porterà ad un aumento dell’assorbimento della CO2 presente nell’atmosfera.

Ma quale sarà il fenomeno che prevarrà, nessuno è in grado di dirlo.

Probabilmente assisteremo a fenomeni completamente nuovi nell’area, come gli incendi boschivi, mentre poco più a sud è già in atto una massiccia infestazione di insetti (anche questa dovuta al riscaldamento globale), che sta uccidendo gli alberi delle foreste boreali. (http://www.fao.org/news/story/it/item/46063/icode/)

Altro fenomeno in corso di studio è la recente comparsa nella regione Artica di passeriformi migratori, che con la loro presenza hanno alterato il paesaggio sonoro dell’area.

Natalie Boelman, una ecologa degli ecosistemi al Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University, ha infatti evidenziato come, sempre a causa dell’effetto del riscaldamento globale e della crescente presenza di alberi e di insetti, questi uccelli tendano a spingersi molto più a Nord che in passato, riempiendo di nuovi suoni il silenzioso ambiente polare. (http://www.polarfield.com/blog/tag/natalie-boelman/)

Natalie Boelman’s birds project:  “The impact of climate warming and changing seasonality, on the interactions among vegetation, insects and songbird communities in an Arctic tundra ecosystem, on the North Slope of Alaska”  (http://www.ldeo.columbia.edu/~nboelman/Bird_Project/Home.html)

Natalie Boelman’s birds project: “The impact of climate warming and changing seasonality, on the interactions among vegetation, insects and songbird communities in an Arctic tundra ecosystem, on the North Slope of Alaska” (http://www.ldeo.columbia.edu/~nboelman/Bird_Project/Home.html)

Come non ripensare al famoso Silent Spring”, il saggio della biologa Rachel Carson apparso nel 1962 e universalmente riconosciuto come l’innesco del movimento ecologista contemporaneo.

Allora la drastica diminuzione della popolazione degli uccelli ipotizzata dall’autrice, basata su studi scientifici relativi all’impatto dell’uso de DDT in agricoltura, oltre a prefigurare primavere silenziose, mise in evidenza le conseguenze imprevedibili dell’uso indiscriminato di prodotti chimici.

silent spring

“‘Silent Spring’ Is Now Noisy Summer”, New York Times 22 July 1962.
(http://www.environmentandsociety.org/sites/default/files/styles/popup/public/nyt-headline_0.jpg)

Oggi il canto degli uccelli in aree dove non era mai stato udito prima, mette in guardia il mondo dagli effetti interrelati e  complessi del riscaldamento globale.

Ancora, oggi come allora, c’è chi minimizza e parla di catastrofismo, continuando ad ignorare la grande verità che il buon senso comune in passato, e la scienza nell’ultimo secolo, hanno ormai ampiamente dimostrato: il fatto incontrovertibile che  “tutto è connesso”.

E se improvvisamente gli alberi appaiono nella tundra, e gli uccelli cantano nelle estreme regioni del  Nord, non è un fatto che riguarda solo le renne e gli sfigati lemming.


Un partito di giardinieri

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In questa domenica di neve e di elezioni, non trovo pace. Una fastidiosa inquietudine mi agita, senza che riesca a darle un nome, ad identificarne con esattezza la ragione o stabilirne la provenienza.

Ho votato, sfidando le intemperie, e spero di aver scelto per il meglio, o quanto meno di aver evitato il peggio.

Per distrarmi ascolto un po’ di musica, mangio qualcosa, poi apro uno dei tanti libri acquistati da mesi, che aspettano che trovi prima o poi il tempo di leggerli.

La scelta cade su un saggio sul giardino, uno dei tanti: lo apro alla ricerca di un po’ di pace.

Dopo qualche pagina mi imbatto in un passaggio che mi colpisce:

“Non sono filosofo, ma questo so: nel nostro tempo troppo pieno di sé e delle sue conquiste, in questa società in cui sembra che il destino di qualsiasi attività sia generare ricchezza, soddisfare desideri pelopiù superflui, abbiamo dimenticato un bisogno, tanto essenziale quanto mangiare o bere: abitare un mondo dotato di senso. Parlo naturalmente del nostro bisogno di spiritualità.

Oh, me ne rendo conto, questa parola desueta suona sospetta alle orecchie dei devoti della modernità. Evoca immagini tenebrose di cattedrali gotiche, di tribunali dell’Inquisizione, di vecchi bigotti malevoli dai volti coperti di rughe. Si associa immancabilmente all’ideale romantico più retrogrado, quello del ritorno ad un passato di superstizione, abusi e violenza. In me invece essa evoca lo stupore di fronte alla magia del mondo e visioni di giardini ricolmi di una bellezza benefica alla quale, nella nostra società democratica, ha accesso un numero sempre più esiguo di persone.

Nella distanza, ogni giorno più grande, che abbiamo messo tra noi e la natura vediamo gli effetti nefasti di questa perdita di spiritualità. Ci siamo allontanati, forse irrimediabilmente, dal mondo naturale, sano e vigoroso in cui il mistero della vita si manifesta in tutta la sua luminosa pienezza, e che per millenni è stato la dimora degli uomini.

(…) Ormai siamo circondati da uno spazio inerte che non esprime più nulla, che non ha niente da raccontare ai nostri cuori, fattisi sordi, ma pur sempre assetati di storie e di mistero.

 (…) Così l’uomo moderno, che già conosce nel proprio intimo la separazione tra corpo e mente, ragione e sentimento, ogni giorno si allontana un poco di più dal mondo che lo circonda. Non avendo più accesso alla propria umanità, si limita a funzionare, come la macchina che è divenuta il suo modello, in un universo che gli è completamente estraneo. Ecco: solo i giardinieri resistono al naufragio della modernità”.

Ecco che d’improvviso si chiarisce la mia inquietudine: ho votato, per il meglio spero, ma mi è mancato qualcosa. Parole che non ho sentito, atteggiamenti che non ho notato, sogni che non ho fatto, guardando le tribune elettorali, ascoltando le interviste, leggendo i giornali, in queste ultime settimane di campagna elettorale.

Forse semplicemente è mancata una visione nuova, un colpo d’ali capace di portarci oltre le promesse sulle tasse, il lavoro, i servizi, i diritti. Tutti temi fondamentali di cui parlare, ma forse non i soli, o almeno non da soli.

Ho bisogno di più, di parole che “raccontino ai nostri cuori”, che siano di aiuto per ritrovare senso, riconquistare tempo e spazio: per la cura, l’etica, la responsabilità, il pensiero, la bellezza, la poesia.

Per sconfiggere questa inquietudine, questa paura che ci schiaccia, non basta diminuire le tasse e aumentare la crescita: c’è bisogno di un sogno nuovo, da sognare insieme.

Riprende a nevicare, e ricomincio a leggere:

“A un amico che mi chiedeva, non molto tempo fa, quale sia la più grande qualità di un amante del giardinaggio, ho risposto senza esitare: la modestia. Gli ho citato i versi di un poeta praghese, secondo il quale «il sentiero che porta all’opera si percorre in ginocchio», perchè un vero giardiniere deve dare costante prova di umiltà, e cancellarsi davanti alla propria creazione. La sua opera deve incessantemente ricominciare e va, come egli sa bene, oltre lui. Il suo è un lavoro certosino, minuzioso, fatto di amore e di pazienza, da svolgere in disparte dal mondo, illuminato da una fede profonda e dolcemente cieca”.

Ecco quello che servirebbe: un partito di giardinieri!

(Il libro che stavo leggendo è : Jorn de Précy, E il giardino creò l’uomo. Un manifesto ribelle e sentimentale per filosofi giardinieri, a cura di Marco Martella, Ponte alle Grazie, Milano 2012. Titolo originale The lost garden, 1912).


La bicicletta e l’arte di pensare…anche al paesaggio

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Athos è un amico, da sempre. Il suo ultimo libro “La bicicletta e l’arte di pensare. Cicloturismo filosofico in Val d’Orcia”, (edizioni Effegi)  l’ho letto perché me lo ha regalato, e perché si leggono sempre i libri degli amici. Ma poi è successo qualcosa.

Come una lenta salita in bicicletta, la lettura mi ha appassionato, tramutando lo sforzo di entrare in me stessa (e di pormi domande da tempo sopite), nella soddisfazione di mettermi in discussione, di intravedere risposte, come quando “un bel panorama o un nuovo incontro premiano la fatica del ciclista”.

Il libro è molte cose insieme: un “giro ciclistico intorno all’uomo”, un appassionato dialogo con molti dei più grandi filosofi e pensatori, una guida anomala, ma indiscutibilmente originale, della Val d’Orcia.

Non è decisamente un libro sul paesaggio, eppure l’autore parte spesso da questo, e a questo ritorna, nelle sue divagazioni sul “mistero umano, con i suoi pensieri da scalare, le sue paure da percorrere, i suoi tortuosi sentimenti da visitare”.

Ma questo non parlare di paesaggio o meglio di parlarne dal di fuori, offre importanti spunti di riflessione a chi voglia coglierli, forse proprio perché non intenzionali, o perché riferiti ad un universo più ampio.

Castiglioni (177)

(Foto di Athos Turchi)

La bicicletta, il mezzo scelto per questo “turismo filosofico”, è senz’altro accattivante, perchè rappresenta un mezzo “elegante  e discreto”  col quale muoversi, sicuramente intorno all’uomo, ma anche nel paesaggio: infatti “la sua silenziosità non ostacola il divagare dei pensieri, non limita lo sguardo, non ti separa dal mondo”.

 Le  riflessioni ciclo-filosofiche dell’autore, inoltre,  hanno inizio all’ombra di una quercia (o “querce”, come si usa dire ancora oggi nella campagna toscana). Una strana coincidenza, se consideriamo il fatto che presso molti popoli la quercia era ritenuto un albero sacro, un luogo magico di connessione tra cielo e terra.

Castiglioni (133)

(foto di Athos Turchi)

Il pensiero divaga dunque alla ricerca di risposte, mentre le gambe spingono sui pedali e lo sguardo cerca un appiglio nel panorama infinito di valli, poggi e calanchi.

Paesaggio e senso della vita si incontrano, attraversando alcuni dei nodi più importanti che abitano oggi la disciplina paesaggistica, e rivelando, forse, il fondamento di una preziosa etica del paesaggio.

 PAESAGGIO E PERCEZIONE

(“Paesaggio designa una parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”, Convenzione Europea del Paesaggio)

 Nell’introduzione l’autore presenta il paesaggio attraversato secondo un’ottica decisamente originale: “eccola lì la val d’Orcia: creta, animali e uomini accomunati e mescolati nell’ugual destino del non senso”.

Uno dei paesaggi più conosciuti e universalmente apprezzati (dichiarato nel 2004 dall’UNESCO  Patrimonio Mondiale dell’Umanità), è dunque percepito e presentato come privo di senso: solo desolata materialità, deserto di significati, arida fatica.

(foto di Athos Turchi)

(foto di Athos Turchi)

Non si può non rimanere colpiti da questo punto di vista, che si contrappone nettamente alla visione romantica, quasi irreale e fuori dal tempo della Val d’Orcia, che siamo abituati a vedere sulle cartoline e che tanto piace ai turisti stranieri.

L’autore si immedesima infatti nel vecchio contadino, incontrato sulla via, che spinge il carro trainato dai buoi, le cui ruote affondano impietose nella creta molle di pioggia. E prova a dare voce al sentimento di chi, su quella creta, ha speso la propria vita, non per creare il paesaggio che noi vediamo, ma semplicemente per sopravvivere.

 Spesso siamo portati a far prevalere nella “percezione” del paesaggio, la componente di nostalgia che ci fa interpretare tutto ciò che appartiene al passato come bello, giusto, in ogni caso migliore del presente. Fondamentale sarebbe invece promuovere la dimensione della speranza, come impegno per un futuro che prosegua e superi il passato, e che sappia coniugare la salvaguardia con la progettualità.

PAESAGGIO, BELLEZZA, SENSO

(“Il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni: nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana”, Convenzione Europea del Paesaggio)

L’autore, giunto nei pressi di Radicofani,  descrive la bellezza del paesaggio attraversato come risultato di varietà e disordine: “l’insieme di cose diverse rendono bello il paesaggio”.

Una visione che si contrappone nettamente a certa pianificazione, che spesso si è dedicata a mettere ordine  nel territorio, come se questo fosse uno scaffale, o un magazzino: le abitazioni qui, le industrie là, le arterie delle strade per connettere le varie zone, lo spazio rimanente come vuoto, talvolta riempito di verde.

(foto di Athos Turchi)

(foto di Athos Turchi)

La riflessione che nasce spontanea nell’autore/osservatore, è che quello che rende bello il paesaggio non è l’ordine ma il senso: il fatto che nel paesaggio che osservo ci sia una intenzionalità, un racconto che riesco a leggere perché parla il linguaggio della mia storia, della mia cultura; che in ciò che guardo ci siano segni che riesco ad interpretare: alcuni naturali, come un fiume o una altura,  e alcuni generati dall’uomo. Segni che riconosco e a cui attribuisco un valore: storico, culturale o semplicemente affettivo.

Molti paesaggi contemporanei hanno invece  perso questa capacità di raccontare,  di  significare qualcosa oltre la semplice funzione, e per questo saranno magari più ordinati, ma sono condannati a restare muti,  e ad essere percepiti come brutti.

 PAESAGGIO E CURA

(“Il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo”, Convenzione Europea del Paesaggio)

 Il paradigma della cura  è stato recentemente rivalutato e promosso come un diverso modello di governo della città basato sulla relazione con l’altro, e sul diritto strettamente connesso con il dovere e la responsabilità.Questi concetti sono inconsapevolmente evocati nel libro e associati  allo spazio pubblico e al paesaggio, assumendo una chiarezza e un fascino particolare quando si parla di Pienza.

L’antico borgo viene infatti descritto dall’autore  come “casa Pienza”, perché arrivati nel cuore del paese ci si trova in uno spazio equivalente ad un “salotto di casa”: con le sue sedute, le finestre che spaziano sulla vallata, da cui traspare una luce “brillante, ma non accecante”, il pozzo utilizzato  come un soprammobile , “come fosse un vaso di fiori messo lì a profumare la sala”.

In questo salotto si può incontrare  “la famiglia Pienza”, “i suoi anziani che discutono, i suoi adulti che passano indaffarati, i bambini che giocano”. Gli abitanti, dunque, percepiscono e usano lo spazio pubblico come fosse la propria casa. Perché ad esso riconoscono un senso, un valore comune che fa scattare quei sentimenti di cura, che sono ormai riconosciuti come molto più efficaci contro il degrado e l’abbandono, di molti dei vincoli o delle norme che abbondano nella nostra legislazione sul patrimonio architettonico e paesaggistico.

(foto di Athos Turchi)

(foto di Athos Turchi)

Un modo femminile di rapportarsi all’altro e all’ambiente, una vera e propria cultura di servizio che l’autore coglie pienamente nel suggestivo ricordo della propria madre: “rivedo mia mamma andare su e giù per la sua vigna che ha sempre curato con fatica, come quando ci si prende cura di un bambino. Potava gli olivi, tagliava il grano e l’erba con la stessa delicatezza con cui mi lavava o mi pettinava. Nella sua mente tutto aveva un senso unitario e tutto aveva il medesimo valore di esistere, e trattava i suoi olivi, i suoi conigli, il suo grano, allo stesso modo con cui curava i figli. Perché la vita – qualunque fosse – per lei era da amare e curare e non da sfruttare”.

 PAESAGGIO E APPARTENENZA

(“Il paesaggio coopera all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea” Convenzione Europea del Paesaggio)

Arrivato alle porte di Castiglion d’Orcia , il suo paese natale, l’autore si interroga sull’esistenza di una “castigliondorcità”. La risposta è sostanzialmente affermativa: “le persone che qui sono nate e vissute hanno un qualcosa che li accomuna e li lega continuamente a questo luogo”.

Ma non è solo il senso di appartenenza, oggi ancora presente, che ha formato questa comunità, sostiene l’autore: è anche la bellezza del suo paesaggio, che ne ha plasmato il carattere e la sensibilità.

La sua percezione del paesaggio dunque, in questo luogo cambia: “sono di fronte alla Val d’Orcia, ma non è quella di prima, è un’altra cosa”. La valle priva di senso dell’introduzione si trasforma nel luogo amato della propria infanzia: “il quadro lo conosco bene, ma quanto mi piace rivederlo, ripassarlo, rileggerlo. E’ un quadro che mi parla, è un panorama col quale posso colloquiare”,   perché conosco la lingua con cui è stato scritto, in esso mi riconosco, e ad esso appartengo.

(foto di Athos Turchi)

(foto di Athos Turchi)

Ma come l’abitante della val d’Orcia si riconosce nel proprio paesaggio, così questa terra “ha impresso il suo sigillo” sulla sua gente: “gli uomini di queste steppe prendono molto dalle terre che coltivano, gente umana e buona se presa per il suo verso, sennò insensibile e dura nei contrasti”. In particolare nei vecchi contadini, il volto coperto di rughe assomiglia al paesaggio delle crete spaccate dal sole, tanto che, racconta l’autore, i vecchi barbieri “per far loro la barba, gli mettevano in bocca un uovo di legno perché quelle rughe si spianassero un po’ per farci passare il rasoio”.

 CONCLUSIONI PAESAGGISTICHE

La gita “cicloturistica” giunge al suo termine raggiungendo non la risposta, ma “una verità in dialogo”, a partire dall’amore per l’altro e dalla cura come fondamento del senso dell’esistenza: “ quindi il bene sta nella comunione reciproca e nella reciproca cura (…). Da ciò ne consegue che la norma e il criterio dell’agire – e dunque della morale – è il bene dell’altra persona”.

 Parafrasando l’autore in termini paesaggistici si potrebbe quindi dire che la norma e il criterio della pianificazione dovrebbe essere la cura del paesaggio. Per dare finalmente vita ad una urbanistica paesaggista che sappia assumere ambiente e paesaggio come condizione imprescindibile senza la quale non esiste senso, non esiste sviluppo, non esiste città.

 Una sorta di agostiniano ama il paesaggio, e fai quello che vuoi!

 P.S. Su alcune posizioni esposte nel libro non siamo d’accordo. Athos lo sa, ma è un amico e se ne parla, ci si confronta.


Spazi aperti alla crisi. Nuovi paesaggi di decrescita urbana

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Da decenni l’urbanistica sta cercando di fare i conti con la cronica mancanza di spazi aperti in ambito urbano, incapace di abbandonare realmente una stagione funzionalista interessata più a occupare il territorio, che a dare spazio .

Oggi la crisi che stiamo vivendo ha sferrato un ulteriore colpo ad un altro aspetto legato allo spazio aperto: quello relativo al suo essere “pubblico”, inteso sia nell’accezione di servizio garantito alla cittadinanza attraverso risorse pubbliche, sia di luogo della comunità, aperto a tutti.

La crisi finanziaria e la relativa mancanza di risorse, a cui si legano conseguentemente una scarsa manutenzione, l’abbassamento della qualità, e l’aumento dell’insicurezza sembrerebbero dunque avere già scritto il requiem per lo spazio pubblico, travolto dall’impossibilità/incapacità delle amministrazioni di gestire, mantenere e valorizzare il proprio patrimonio, così come di immaginare e progettare il suo futuro.

Ma come spesso accade nei sistemi complessi, i momenti di perturbazione, le “crisi” possono portare il sistema alla morte, travolto da disordine e caos, così come spingerlo invece verso stadi di ordine superiore, attraverso quel fenomeno denominato “autorganizzazione”.

Come la Teoria del Caos ci insegna, infatti, i momenti di crisi, di instabilità, se saputi sfruttare e gestire, spesso si rivelano importanti spunti di creatività e di crescita.

Un cauto ottimismo può quindi farci interpretare così il moltiplicarsi di esperienze che spontaneamente, nei più diversi luoghi e contesti, tentano di trasformare questa crisi, imposta e subita, in scelta consapevole di decrescita: trasformando uno stato d’animo (e di fatto) negativo, in una risorsa.

Facendo ricorso alle “8R” di Latouche, proviamo allora a dare spazio ad alcuni interessanti esperimenti in cui lo spazio aperto è divenuto luogo condiviso di dialogo e di sperimentazione di nuove forme di progetto e di partecipazione (e forse non sembrerà più un caso che alcuni degli esempi più interessanti arrivino proprio dalla Grecia! http://popupcity.net/2013/04/three-inspiring-examples-of-greek-crisis-urbanism/).

Riciclare

Il primo esempio riguarda il riuso di 2100 bottiglie di plastica come arredo per la recinzione di una scuola elementare. Nella città di Chania, sull’isola greca di Creta, lo studio ateniese di architettura Kollektivemind *, ha infatti riunito alunni, genitori e insegnanti attorno ad una installazione semplice e “interattiva”, in un quartiere periferico della città.

(Immagine di Kollektivemind *,  http://kollektivemind.com/project-argallios/)

(Immagine di Kollektivemind *, http://kollektivemind.com/project-argallios/)

Il progetto è stato denominato “Argallios”, nome che deriva dalle parole greche αργαλειός (telaio) e la αλλιώς avverbio, che significa “in modo diverso”. Reinterpretando infatti la tradizione locale dei decori sulle stoffe, la comunità è stata chiamata a realizzare un disegno sulla rete di recinzione, usando bottiglie di plastica riciclate e colorate, dando così vita alla riqualificazione dell’immagine, anche simbolica, dell’area intorno alla scuola, che è divenuta un punto di riferimento dal significato ecologico e culturale, per l’intero quartiere.

(Immagine di Kollektivemind *,  http://kollektivemind.com/project-argallios/)

(Immagine di Kollektivemind *, http://kollektivemind.com/project-argallios/)

(Immagine di Kollektivemind *,  http://kollektivemind.com/project-argallios/)

(Immagine di Kollektivemind *, http://kollektivemind.com/project-argallios/)

Ricontestualizzare/Rilocalizzare

E’ tipica di ogni periodo di crisi (guerra, recessione, ….) la riscoperta del valore economico degli orti. Le categorie più deboli possono infatti trovare nella coltivazione di un piccolo appezzamento di terreno un aiuto concreto ed una integrazione al bilancio familiare.

Il nuovo regolamento sugli orti approvato lo scorso marzo dalla città di Torino, prova però ad andare oltre, attribuendo a queste aree non solo un valore economico, ma anche di presidio contro il consumo di suolo e di importante occasione per fare comunità.

Il regolamento si prefigge infatti di superare le esperienze precedenti rivolte alla mera esigenza di regolarizzare le coltivazioni abusive, e cerca di valorizzare i cambiamenti culturali avvenuti negli ultimi anni, per promuovere la socialità e la partecipazione dei cittadini, sostenere la produzione alimentare biologica e le specie orticole tradizionali, favorire la coesione e il presidio sociale, sottrarre i luoghi alla marginalità e al degrado.

La semina delle patate al parco del Valentino, Torino, 16 marzo 1941 (Foto Archivio Storico della Citta’ di Torino, http://www.comune.torino.it/archiviostorico/mostre/tavola_2004/pannello3.html)

La semina delle patate al parco del Valentino, Torino, 16 marzo 1941 (Foto Archivio Storico della Citta’ di Torino, http://www.comune.torino.it/archiviostorico/mostre/tavola_2004/pannello3.html)

In particolare, rispetto ai modelli precedentemente adottati, il nuovo regolamento:

  • consente di estendere a diverse categorie di persone la possibilità di assegnazione di un lotto (non solo “orti sociali” ma anche “orti di prossimità”);
  • permette di recuperare dal degrado alcune aree verdi incolte, su proposta degli stessi cittadini;
  • stimola una forma di restituzione che non sia solo il pagamento di un canone economico ma si basi sulla valorizzazione della dimensione relazionale con finalità pedagogiche, didattiche, terapeutiche e sociali.

Oltre alle pratiche tradizionali, dunque, il nuovo regolamento ha riconosciuto il valore comunitario degli orti, prevedendo una maggiore condivisione nella gestione e manutenzione, a partire degli spazi a comune, e promuovendone il ruolo di tutela del paesaggio e del suolo.

Riutilizzare

Illuminare i tempi bui della crisi è stato l’obiettivo del progetto dello studio ateniese “Beforelight” e della organizzazione non-profit “Imagine the city”, che ha coinvolto il quartiere quartiere Monastiraki, nel cuore di Atene, colpito duramente dalla crisi e divenuto zona insicura e degradata.

Il progetto “Under a different light” ha infatti messo a punto un tentativo di micro-riqualificazione di alcune strade urbane, tra cui la Pittaki, attraverso il coinvolgimento della popolazione, nel tentativo di ridare luce allo spazio pubblico, in senso sia letterale che metaforico.

(Immagine di Beforelight, http://www.beforelight.gr/ )

(Immagine di Beforelight, http://www.beforelight.gr/ )

(Immagine di Beforelight, http://www.beforelight.gr/ )

(Immagine di Beforelight, http://www.beforelight.gr/ )

Sono state quindi raccolte vecchie lampade, riparate e riadattate durante un workshop pubblico allestito in un vecchio negozio abbandonato, e riutilizzate per una installazione luminosa lungo le strade del quartiere. Il risultato è stato quello non solo di creare una nuova atmosfera in aree degradate della città, ma anche i di riunire la comunità intorno ad un progetto, per ridare speranza, e guardare sotto una diversa luce il futuro, contrastando il buio della crisi.

Rivalutare/Ristrutturare/Ridistribuire

Rendere Todmorden la prima città Britannica autosufficiente dal punto di vista alimentare entro il 2018, è l’ambizioso progetto dall’evocativo nome di “Incredibile Edible”, nato ormai più di cinque anni fa nel nord dell’Inghilterra.

Un gruppo quasi tutto di donne le fondatrici, che riunite attorno ad un tavolino del “Bear Cafe” hanno deciso di cambiare il mondo. Come sostiene infatti Mary Clear, leader del gruppo, “quando gli uomini bevono, nei bar succedono sempre casini e risse, invece quando sono le donne a riunirsi insieme a bere un caffè succedono solo belle cose” (http://lospiritodeltempo.wordpress.com/2012/01/07/la-storia-del-paese-che-coltiva-tutta-la-sua-verdura/).

(Incredibile Edible, Todmorden  http://www.incredible-edible-todmorden.co.uk/)

(Incredibile Edible, Todmorden http://www.incredible-edible-todmorden.co.uk/)

Tutto è iniziato però quando Pamela Warhursth ha aperto il suo orto di casa invitando i passanti, tramite cartelli, ad entrare per cogliere frutta e verdura. Dopo cinque anni “passeggiando tra le strade di Todmorden ci si può imbattere nelle coltivazioni di patate alla stazione di polizia, in orti di broccoli alla stazione dei treni, ma anche in aiuole con lamponi, mele e albicocche lungo il sentiero del canale, oppure fagioli e piselli fuori dal college, o ciliegie nel parcheggio del supermercato, ribes rosso e fragole dietro uno studio medico, timo, finocchio, rosmarino e menta vicino l’ospedale” (http://www.ecologiae.com/incredible-edible-orto-cittadino/52324/). Tutto gratis: le verdure sono lì per essere raccolte da chiunque.

La rivoluzione gentile delle signore reagisce dunque alla crisi aumentando “la quantità di cibo coltivato e prodotto in loco come mezzo di sostentamento per tutti, di opportunità di lavoro e di sviluppo sostenibile”, coinvolgendo “le imprese, le scuole, gli agricoltori e la comunità. Le aiuole pubbliche vengono trasformate in orti e frutteti. Intorno alle scuole , alle case di riposo e un po’ dappertutto, ove possibile, fanno crescere frutta e verdure”, nella convinzione che rendere accessibile al pubblico cibo sano e locale possa arricchire in tutti i sensi la comunità.

(Incredibile Edible, Todmorden  http://www.incredible-edible-todmorden.co.uk/)

(Incredibile Edible, Todmorden http://www.incredible-edible-todmorden.co.uk/)

“Così mentre i governi parlano dall’alto di ciò che si potrebbe fare e di ciò che non si potrebbe fare, noi cerchiamo di fare la differenza partendo dal basso” (http://www.valtermina.it/index.php?option=com_content&view=article&id=178:benvenuti-a-todmorden&catid=43:varie&Itemid=64).

Oggi Incredibile Edible è un modello in continua espansione: solo nel Regno Unito si possono contare quaranta comunità e più di cento nel resto mondo, dal Canada alla Nuova Zelanda. Da poco è sbarcato anche in Italia, dove a San Bonifacio in provincia di Verona ha iniziato la sua attività con il nome di Incredibili Commestibili.

Ogni comunità è diversa per azioni e organizzazione, ma tutte sono unite dalla stessa convinzione di poter migliorare il mondo promuovendo l’accesso al cibo locale (http://incredibleediblenetwork.org.uk/)

La crisi, dunque, distruggerà noi, le nostre comunità, i nostri spazi? Forse, per come oggi li conosciamo.

Ma rappresenta anche una occasione per riconsiderare le nostre convinzioni e i nostri modelli, che mette in evidenza ciò che Sun-Wu, il maestro della guerra, chiamerebbe il potenziale nascosto in ogni situazione.

Sta a noi riconoscerlo e scegliere o meno di sfruttarlo.



Paesaggi di parole

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Nell’era del linguaggio sincopato a cui ci hanno abituato mail e sms, tra un classico tvb (ti voglio bene), un anglofono omg (oh my good), fino ad uno spiccio cvd (ci vediamo dopo), certi libri non trovano collocazione, e hanno poco mercato.

A chi può interessare oggi la minuziosa descrizione delle diverse forme e texture dei faggi: “molti apparivano lisci come raso grigio, ma alcuni avevano una ruvidità da carta smeriglia ed erano coperti da un’ombra di muschio”? Perché perdere tempo per definire in cento modi diversi, ognuno estremamente preciso ed evocativo, la luce che attraversa il bosco nelle diverse stagioni e ore del giorno: grigia, acquatica, oscura e brillante, luccicante di granelli infuocati, splendente, dura e metallica, densa e violacea?

“Tu 6 proprio 3mendo” verrebbe da messaggiare all’autore.

TVB (Fonte immagine: http://www.scritturebrevi.it/)

TVB (Fonte immagine: http://www.scritturebrevi.it/)

 

Ma John Alec Beker scriveva The hill of summer, nel 1967, in un’era pre- internet e telefonia mobile, quando per le parole esisteva forse maggiore considerazione. Solo recentemente (2008) il testo è stato tradotto in italiano da Salvatore Romano, per la nuovissima casa editrice palermitana Gea Schirò, nata con l’obiettivo di proporre “testi nuovi o ignorati che non abdichino alla pratica della complessità”.

E in questo libro, dove  non succede nulla per oltre centocinquanta pagine, è proprio la complessità, la ricchezza della lingua a fare da protagonista. Le parole scorrono, fluiscono in maniera armonica, quasi fossero una musica. La narrazione diventa una cantilena, che attraverso un  ritmo ancestrale (come onda, respiro, battito cardiaco),  conduce in una dimensione diversa, dove il lettore diventa faggio, quercia, muschio, collina, falco, allodola.

Una sorta di “via dei canti” anglosassone, dove le parole creano una melodia che definisce un territorio, un paesaggio, dove l’uomo non è protagonista, ma semplicemente parte di un tutto.

L’autore, invece di un  linguaggio sincopato, sembra voler scegliere una sorta di controtempo, annullando completamente la prima persona (tempo forte), e ponendo l’accento sulla scrittura, sulla parola (tempo debole) capace non solo di descrivere, ma di evocare, far vivere e risuonare un paesaggio.

La scelta delle parole diviene dunque una forma di cura, di amore per il proprio ambiente, che spinge l’autore a cesellare il linguaggio, per dare conto di ogni dettaglio, di ogni sfumatura del microcosmo da lui conosciuto e amato.

Così Beker descrive, ad esempio, i downs, il paesaggio collinare tipico dell’Inghilterra del sud:

“Il sole splendeva e un tagliente vento di luce mi soffiava in faccia come il fremito di una vela bianca sulla verde distesa ondulata. Le colline più a sud erano scure, si allontanavano in crinali ondosi, sbiadendo da grigio in bluastro, scomparendo in un’aria nebulosa. Quelle più vicine sembravano allontanarsi veleggiando, quelle un poco più lontano avvicinarsi lentamente. Quelle più lontane erano quiete nel loro silenzio, estranee a quel paesaggio, appartenenti ad un altro luogo e a un altro tempo. Sotto, sul pendio della collina, cresceva un boschetto, scuro del verde velato delle querce, leggero dell’ondeggiare soffice del frassino, del bianco dei fiori del biancospino e di un fremito dei larici color smeraldo. Il canto caldo dei merli aleggiava verso di me sulle ali della brezza, percepibile solo nei silenzi momentanei delle allodole più in alto”(pag.51).

Downland landscape (Foto di  Giles C. Watson)

Downland landscape (Foto di Giles C. Watson)

Ludwig Wittengstein ha scritto: i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”.

In quale ristretto mondo viviamo, allora, noi che affidiamo ad uno scarno tvb, il compito di trasmettere uno dei sentimenti più complessi e multiformi che caratterizzano il genere umano?

Quali paesaggi abitiamo, se usiamo così poche parole per descriverli, o se, ancora peggio, attraverso le parole (consumate, manomesse, improprie) continuamente lo tradiamo, lo violentiamo?

Viene in mente ad esempio la definizione, abusata e indefinita, ma ancora oggi grandemente in auge, di “verde urbano”. Come ha scritto Alain Roger, questa “verdolatria”, così ampiamente professata dai nostri amministratori e legislatori, e così banalizzante, in realtà nuoce gravemente al paesaggio (vedi la L. 10 del 2013, “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”).

Creare “spazi verdi”, infatti, o piantare alberi, niente aggiunge al paesaggio urbano: “atopico, acronico, anartistico, lo spazio verde non si cura dei tracciati, delle proporzioni, degli elementi minerali e acquatici, della composizione paesaggistica o geometrica. E’ un nulla vegetale consacrato alla purificazione dell’aria e all’esercizio fisico” (Pierre e  Denise Le Dantec, Le roman des jardins de France, Plon, Paris 1987, pag.261)

 

Verde urbano e Verdolatria (Fonte:http://oggiscienza.wordpress.com/tag/verde-urbano/

Verde urbano e Verdolatria (Fonte:http://oggiscienza.wordpress.com/tag/verde-urbano/

Ma ancora oggi, una  nuova parola capace di definire la varietà e le sfumature, o almeno di rendere giustizia alla complessità di  questi paesaggi urbani, relegando finalmente il “verde” nella cornice di un passato funzionalista, non siamo riusciti, o non abbiamo voluto trovarla. E forse è anche per questo che il “verde” urbano è così scadente, banale, sciatto, in-significante.

La precisione delle parole e la ricchezza del lessico usate da Baker vengono allora a ricordarci che le parole sono importanti, perché il linguaggio ha il potere di creare realtà, di rendere giustizia alla complessità delle cose, di produrre trasformazioni.

Trash (Disegno di Saul Steinberg)

Trash (Disegno di Saul Steinberg)

Aver cura dei nostri paesaggi significa allora anche cercare le parole giuste per narrarli, riscoprendo, come dice Raimon Panikkar “il potere creativo della parola, che si rinnova e si arricchisce ogni volta che è pronunciata, rinnovando e arricchendo chi la pronuncia”(Raimon Panikkar,  Lo spirito della parola, Bollato Boringhieri, Torino 2007) .

L’estate della collina è la narrazione di dodici paesaggi, vissuti, scoperti, ascoltati, descritti nello splendore della stagione estiva. Rappresenta, oggi più che mai,  una importante lezione e un invito “a guardare con acutezza, con precisione e con rispetto”, e ad usare le parole con cura, restituendo loro (e alla realtà che attraverso di loro conosciamo) senso, spessore, consistenza, colore.

 

 


Se si insegnasse la bellezza

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Peppino Impastato: Sai cosa penso? Che quest’aeroporto in fondo non è brutto, anzi…

Salvo Vitale: Ma che cosa dici?

Peppino Impastato: No ma… Visto così dall’alto, uno sale qua sopra e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre, che è ancora più forte dell’uomo e invece non è così! In fondo tutte le cose, anche le peggiori, una volta fatte poi si trovano una logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere: fanno ‘ste case schifose con le finestre in alluminio e i muri di mattoni finti… Mi stai seguendo?…

Salvo Vitale: Eh, ti sto seguendo!

Peppino Impastato: …I balconcini, ‘a gente ci va a abitare e ci mette… le tendine, i gerani, la televisione e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio, c’è, esiste, nessuno si ricorda più di com’era prima, non ci vuole niente a distruggere la bellezza.

Salvo Vitale: Ah beh, ho capito, ma allora?

Peppino Impastato: E allora… E allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte le manifestazioni e ‘ste fissarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza, aiutarla a riconoscela, a difenderla.

Salvo Vitale La bellezza?

Peppino Impastato: La bellezza, è importante la bellezza, da quella scende giù tutto il resto.

(I cento passiregia di Marco Tullio Giordana, 2000)

 

 

Bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione” sosteneva Peppino Impastato. La bellezza è importante, da quella scende giù tutto il resto.

La creazione di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” nel 1995 è stato sicuramente un primo passo per “valorizzare la memoria delle vittime di mafie e di ogni altra violenza e non dimenticare chi si è impegnato a costruire giustizia”.

Credo però che oggi Peppino Impastato sarebbe particolarmente felice sapendo che l’Italia parteciperà alla terza edizione del Premio  del Paesaggio del Consiglio d’Europa, e lo farà con  il progetto “La rinascita dell’Alto Belice Corleonese dal recupero delle terre confiscate alla mafia”, realizzato dalla “Cooperativa Placido Rizzotto” e presentato proprio da Libera Terra. 

Candidato italiano al Premio del Paesaggio del Consiglio d'Europa 2012-2013
Candidato italiano al Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa 2012-2013

Il Premio del paesaggio del Consiglio d’Europa è stato istituito nel 2000 dall’art.11 della Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), ed è un riconoscimento formale rivolto alle collettività locali e regionali, ai loro consorzi e alle organizzazioni non governative che abbiano “attuato una politica o preso dei provvedimenti volti alla salvaguardia, alla gestione e/o alla pianificazione sostenibile dei loro paesaggi che dimostrino una efficacia durevole e possano in tal modo servire da modello per le altre collettività territoriali europee” o che abbiano “dimostrato di fornire un apporto particolarmente rilevante alla salvaguardia, alla gestione o alla pianificazione del paesaggio” (CEP, 2000, art.11).

La CEP ha infatti introdotto, tra gli altri, un principio fondamentale, che sancisce il diritto delle popolazioni al paesaggio e alla sua qualità,  in quanto “ il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e […] la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo”, e ogni paese firmatario si è impegnato a “riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità “ (CEP, 2000).

Pertanto qualsiasi alterazione negativa, decurtazione, cancellazione inferta al paesaggio, lede un diritto primario delle persone, sottraendo loro natura, cultura identità, bellezza.

Il progetto di Libera Terra: "La rinascita dell'Alto Belice Corleonese dal recupero delle terre confiscate alla mafia",

Il progetto di Libera Terra: “La rinascita dell’Alto Belice Corleonese dal recupero delle terre confiscate alla mafia”,

Il progetto presentato, relativo al territorio dell’Alto Belice Corleonese, è stata  la prima esperienza realizzata da Libera Terra, a partire dal 2001, e ha riguarda il recupero di una superficie di oltre 500 ettari di terreni confiscati alla mafia e abbandonati da anni, e degli edifici rurali presenti all’interno dell’azienda, con particolare attenzione alla protezione dell’ambiente, al recupero delle coltivazioni tradizionali e alla salvaguardia del paesaggio rurale.

La candidatura è stata selezionata tra le 77 diverse proposte pervenute, attraverso la valutazione dalla Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MIBAC) ,  affiancata da una Commissione di esperti.

In particolare la Commissione giudicante ha evidenziato che “la valorizzazione del paesaggio, con il recupero e restauro dei manufatti rurali, il ripristino di antiche colture, di tradizioni e sapienze locali, costituisce il felice esito di un modello di attività che Libera sperimenta e propone come sostenibile, riproducibile, fondato sulla partecipazione attiva e sulla sensibilizzazione collettiva per la lotta alle mafie e alla corruzione” (http://www.premiopaesaggio.it/).

Progetto di Libera Terra: "La rinascita dell'Alto Belice Corleonese dal recupero delle terre confiscate alla mafia"

Progetto di Libera Terra: “La rinascita dell’Alto Belice Corleonese dal recupero delle terre confiscate alla mafia”

La capacità di coniugare cultura del paesaggio e democrazia, etica ed economia, bellezza e giustizia è dunque risultata essere  la cifra distintiva del progetto, e lo ha reso particolarmente meritorio agli occhi dei giudici.

Quasi una riproposizione in chiave moderna dello spirito dei greci antichi, che in quelle terre abitarono, e che furono grandi cultori del bello inteso come giusto.

L’Alto Belice Corleonese costituisce infatti un innovativo esempio dove la valorizzazione del paesaggio rappresenta sia l’esito di un modello virtuoso di attività condivise e partecipate, sia  uno strumento di promozione culturale, di educazione alla legalità, alla bellezza, capace di suscitare nuovamente nella popolazione locale sentimenti di orgoglio e di appartenenza.

Puntuale e convincente è stata inoltre la risposta del progetto ai criteri richiesti dal Regolamento del premio (sostenibilità, esemplarità, partecipazione, sensibilizzazione) ed in particolare:

  • Sviluppo territoriale sostenibile:

grande attenzione è stata rivolta al recupero e il restauro dei manufatti rurali, alla reintroduzione di allevamenti autoctoni e di antiche colture, e ai metodi di coltivazione biologica. In alcuni casi sono state previste  tecniche di risparmio energetico, attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili. La ripresa delle  attività agricole ha infine favorito  il recupero di numerose attività artigianali (vini, produzione di pasta di grano duro), che hanno rinnovato nelle persone coinvolte sentimenti di orgoglio e di appartenenza.

  • Ruolo esemplare:

le pratiche di gestione attuate nel corleonese rappresentano un un’esperienze pilota, replicabile in molti altri casi di beni confiscati alla mafia,  in particolare nel sud Italia, e costituiscono un modello implementabile da tutte le altre cooperative confederate con Libera, presenti in Puglia, Campania, Calabria.

  • Partecipazione pubblica:

la costituzione della cooperativa “Placido Rizzotto” è avvenuta facendo ampio ricorso alla partecipazione dei cittadini, e in particolare delle persone svantaggiate, e dei lavoratori disoccupati. Inoltre la gestione della cooperativa fa ricorso a criteri democratici, requisiti che sono divenuti motore di ulteriore partecipazione, attuata attraverso il coinvolgimento delle istituzioni pubbliche e delle realtà locali, l’organizzazione di campi di volontariato per i giovani, e l’attivazione di una rete di divulgazione e scambio di esperienze.

  • Sensibilizzazione:

il progetto prevede diverse azioni di comunicazione messe a punto al fine di favorire la partecipazione diretta dei cittadini. Sono stati predisposti pubblicazioni e materiale informativo per coinvolgere le persone sul web, così come sono state realizzate iniziative nelle scuole per promuovere nei giovani  il valore culturale del contrasto alla criminalità organizzata attraverso la realizzazione di attività economiche virtuose. Infine grazie a FLARE (la rete europea di Libera), è stato possibile diffondere a livello comunitario le tematiche riguardanti il sequestro di beni a organizzazioni mafiose.

Bisognerebbe educare la gente alla bellezza (Peppino Impastato)

Bisognerebbe educare la gente alla bellezza (Peppino Impastato)

Luigi Zoja ha scritto nel suo saggio Giustizia e bellezza:  “oggi, nel ricco e mai sazio Occidente, la massa ha accesso a una sovrabbondanza di beni di consumo quotidiano.. ma non ha quasi più accesso alla bellezza. Se hanno un senso le nostre considerazioni sul bisogno umano di sinergia tra etica ed estetica, diventa necessario domandarsi: la moderna inaccessibilità della bellezza non può essere fra i responsabili della diffusa indifferenza verso la giustizia?” (Luigi Zoja, Giustizia e bellezza, Bollati Boringhieri, 2007).

Difficile rispondere, ma il progetto della cooperativa “Placido Rizzotto”,  provando a colmare la frattura tra legalità e bellezza che da troppo tempo affligge queste terre, offre certo una interessante prospettiva.


Ripide considerazioni su paesaggi alpini

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Non so se esistano nei vari dialetti dell’Alto Adige diverse parole per indicare la mille gradazioni di verde che contraddistinguono i paesaggi alpini, così come la leggenda metropolitana vuole che gli Inuit abbiano un centinaio di vocaboli per descrivere la neve (….lo so, è una bufala, ma è un peccato che non sia vero!).

Certo è che chi abita qui, o semplicemente vive in questi luoghi per qualche settimana l’anno, sa che il semplice aggettivo “verde” è del tutto insufficiente a dare ragione delle mille sfumature di prati, campi, laghi, boschi, orti che si rincorrono e si sovrappongono per queste valli.

(foto S.M.)

(foto S.M.)

E’ una cosa che non smette di stupirmi, e che ogni anno rinnova la meraviglia di sentirmi a casa in un posto che non è casa mia, di identificarmi in un paesaggio che non è il mio ambiente di vita, di appartenere a un luogo che non mi appartiene.

Quassù io sono turista: uno dei tanti estranei che sotto le più diverse forme ogni estate invadono queste valli alla ricerca di qualcosa.  Il sociologo Erik Cohen li ha suddivisi in due diverse categorie: il sightseer, attratto dalle novità e da esperienze sempre diverse e il vacationer, che al contrario ricerca la tranquillità, il comfort, il riposo.

In ogni caso corpi estranei, che chiedono a questi luoghi di essere autentici e nello stesso tempo conformi ai loro desideri, corrispondenti all’immagine che si sono costruiti.

Di queste montagne io amo la pace, la luminosità, i cieli, l’aria, i paesaggi . Mi piace ritrovare ogni anno i campi di fieno tagliati, gli orti curati accanto ai masi, le mucche che pascolano in alta montagna, le rocce che fanno da scenario.

Orto di montagna (foto S.M.)

Orto di montagna (foto S.M.)

Tutti elementi che sembrano semplicemente connaturati in questi luoghi, ma lasciando per un attimo lo sguardo forestiero del turista mi chiedo invece quale fatica, quali lotte, quali rinunce e quali aspirazioni ci sono dietro questi paesaggi che ci incantano?

Un recente studio dell’Università di Vienna  ha messo ad esempio in luce come il criticato istituto del “maso chiuso” presente in Alto Adige, sia  in realtà uno dei motivi per cui su queste montagne si è conservata negli anni una fiorente agricoltura (http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/cronaca/2010/11/15/news/il-maso-chiuso-che-salva-l-agricoltura-1.3865950).

La dura legge del Maso, infatti, che pone le sue fondamenta nella famiglia patriarcale, e nel diritto di successione che assegna l’intera proprietà agricola familiare al solo primogenito maschio (per legge negli anni passati e recentemente per consuetudine), se da un lato ci appare socialmente deprecabile, dall’altro rappresenta uno dei motivi per i quali l’agricoltura ha potuto mantenere in vita i paesaggi che ci attraggono. Il Maso, infatti, non potendo per legge essere frazionato, favorisce la continuità nel possesso e assicura alla famiglia intestataria una rendita adeguata e costante, consolidando nel tempo il vincolo con la terra.

Dove invece l’eredità dell’azienda familiare è stata frazionata e suddivisa in parti uguali fra i figli, l’equità sociale è stata salvaguardata, ma molti agricoltori hanno abbandonato i campi, trasferendosi in città.

Che dire poi delle splendide distese di prati impervi degli alpeggi in quota,  risultato della consuetudine di portare il bestiame,  nei mesi tra la tarda primavera e l’estate, a pascolare nei pascoli di alta montagna? Pratica insostituibile nei secoli per l’allevamento del bestiame e la produzione casearia locale, oggi fondamentale anche per la conservazione del paesaggio, della biodiversità e di conseguenza del turismo.

Salendo in passeggiata sopra i 2000 metri si incontra ancora qualche malga abitata per i mesi estivi da pochi anziani e da ancor meno giovani, assetati delle poche chiacchiere da barattare con i turisti di passaggio, in cambio di un po’ di cacio o di burro rancido.

Malga Ursprung (2393 m).  Parco naturale Vedrette di Ries-Aurina  (foto S.M.)

Malga Ursprung (2393 m). Parco naturale Vedrette di Ries-Aurina (foto S.M.)

Malga Ursprung (2393 m).  Parco naturale Vedrette di Ries-Aurina  (foto S.M.)

Malga Ursprung (2393 m). Parco naturale Vedrette di Ries-Aurina (foto S.M.)

Sono questi gli ultimi esemplari di quelli che il giornalista Aldo Gorf chiamò “eredi della solitudine”  nella sua inchiesta degli anni Settanta corredata dalle immagini di Flavio Faganello, sui masi di montagna del Sud Tirolo, dove descrisse le condizioni di isolamento e marginalità di intere famiglie, il loro microcosmo economico autosufficiente immutato nei secoli e l’incolmabile abisso che separava “questo misconosciuto terzo mondo dal nostro smog quotidiano” (Aldo Gofer, Flavio Faganello, Gli eredi della solitudine. Viaggio nei masi di montagna del Tirolo del sud, Arti Grafiche Saturnia, Trento 1974).

Molte cose sono cambiate da allora, altre non poi così tanto: certo è che i paesaggi tanto amati da noi turisti sono stati (e in parte sono ancora) frutto di abnegazione e ostinata tenacia degli abitanti della montagna.

Nel tempo le strade hanno preso il posto degli impervi sentieri che collegavano a valle, l’isolamento è stato sconfitto da televisione e internet, il vecchio si è mischiato al nuovo, ma la vita in montagna rimane comunque dura, anche se oggi, a differenza di ieri, andarsene è possibile.

Il mutamento decisivo, infatti, capace di incidere più di ogni altra cosa sul futuro di questi luoghi, sta proprio nella possibilità di scelta, come hanno messo in evidenza  Francesco Bocchetti e Gianni Zotta,  che a trentacinque anni di distanza hanno ripercorso le vecchie strade dei masi calcate da Gorfer e Faganello mettendone in evidenza continuità e cambiamenti (Francesco Bocchetti, Gianni Zotta, Sudtirolo. Il cammino degli eredi, Professionaldreamers, Trento 2010).

L'aspetto odierno del maso Vorra. Ora è possibile arrivare coi mezzi agricoli dentro il fienile, esiste una  teleferica di servizio, i bambini vengono accompagnati in auto fino alla funivia da dove scendono per andare a scuola a Laces (foto http://cipputi-antichimestieri.blogspot.it/2011/11/i-masi-di-sankt-martin-am-kofel-in-val.html#.UiC-YJLwmSo)

L’aspetto odierno del maso Vorra. Ora è possibile arrivare coi mezzi agricoli dentro il fienile, esiste una teleferica di servizio, i bambini vengono accompagnati in auto fino alla funivia da dove scendono per andare a scuola a Laces (foto http://cipputi-antichimestieri.blogspot.it/2011/11/i-masi-di-sankt-martin-am-kofel-in-val.html#.UiC-YJLwmSo)

Chi potrà fermare infatti, o anche solo biasimare, gli agricoltori, i malgari, i pastori, se sceglieranno di scendere a valle, attratti da quella vita “migliore” che hanno visto in televisione e su internet, dalla nostra vita, che ogni estate  proviamo a lasciarci alle spalle, almeno per un momento, salendo qui in montagna?

Inoltre pochi chilometri di strada, qualche chilometro di filo elettrico e di tubature,  “hanno restituito il mondo agli abitanti di montagna”, ma hanno tolto loro l’autonomia. Adesso per vivere devono guadagnare, per guadagnare devono lavorare e il lavoro retribuito si trova solo a valle.

Ma soprattutto oggi esistono alternative alla vita del maso, al silenzio, alla solitudine, alla fatica. E la strada che porta in città, neanche a dirlo, è tutta in discesa.

La stra per la città è tutta in discesa (foto S.M.)

La stra per la città è tutta in discesa (foto S.M.)

Quale sarà il futuro dei paesaggi alpini è difficile da prevedere: certo è che turisti e locali, cittadini e montanari sono indissolubilmente legati, necessari gli uni agli altri, uniti in un mondo ormai senza confini, nel quale modernità e tradizione devono cercare la giusta declinazione per poter convivere.

Resta la speranza di poter tornare ogni anno su queste montagne a godere delle mille sfumature di verde, perché, come sostiene Enrico Camanni nella prefazione al libro di Bocchetti e Zotta:

“ il futuro non prevede solo viaggi dall’alpe verso la città. Le Alpi e i masi che verranno possono contemplare anche viaggi e incertezze in senso contrario, di migranti che scelgono la montagna per necessità, oppure di gente satura di città che decide di salire alla ricerca di quegli stessi valori (o disvalori) che generavano la fuga dei valligiani.

(…) dopo aver sperimentato i limiti dell’urbanizzazione si può cambiare prospettiva, leggendo nel mondo di ieri i segni del domani”.


Dimissioni per la decrescita

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Dimissioni è sicuramente una delle parole che più ha caratterizzato il 2013.

In questo difficile anno,c’è chi si è dimesso perché non più all’altezza della situazione, per un desiderio di autolimitazione di fronte ad un compito che sembrava diventato troppo grande per le proprie forze; chi si è dimesso per aver superato ogni limite di credibilità provando a smacchiare un giaguaro, e chi si è dimesso per un desiderio smodato di illimitatezza, di superamento di qualsiasi regola, di qualsiasi limite imposto alle ambizioni proprie e del proprio capo.

Le dimissioni sono spesso una rinuncia, possono essere imposte oppure scelte, così come possono mandare via, lasciare andare o portare altrove (dal latino dimittĕre). Talvolta si configurano anche come una rivendicazione, una protesta.

Torna in mente in questo caso Henry David Thoreau,  che nel suo famoso saggio “Disobbedienza civile” scriveva:  “se vuoi davvero fare qualcosa, rassegna le dimissioni”.

Dimissioni (Altan)

Dimissioni (Altan)

Thoreau parlava allora della necessità di obiezione, di ribellione non violenta verso leggi ingiuste, che non rispettavano i diritti civili.

Latouche ha recentemente scritto, riguardo alla necessità di ribellarsi alla follia e all’ingiustizia di una crescita infinita, sottolineando l’opportunità di ritrovare il senso del limite, a livello individuale, ma ancor più a livello collettivo.

Due atteggiamenti che presentano molti punti di contatto e che uniti possono svelare una  rivoluzionaria potenzialità: le dimissioni come strumento di protesta pacifica, di autolimitazione, di decrescita civile.

Ampliando infatti il concetto di dimissioni, nel senso di autolimitazione scelta, di protesta non violenta contro gli eccessi imposti dalla nostra società, è possibile operare la scelta rivoluzionaria di dare le dimissioni da consumatori, da telespettatori, da workhaolic, da vincenti per forza, da bulimici per necessità, ecc…

Ma non basta. Servono soprattutto dimissioni da abusati modi di pensare, che avvelenano anche i migliori progetti di cambiamento, che spesso finiscono per riproporre sotto mentite spoglie errori deprecati, modelli censurati, incapaci di vedere e realizzare davvero il cambiamento.

Accade infatti che gruppi nati per opporsi alle logiche del mercato, promuovendo il valore della solidarietà, della condivisione e della partecipazione, finiscano a volte per perdere il senso del limite e per trincerasi in atteggiamenti integralisti, di rifiuto di chi non è conforme, allineato, assumendo comportamenti dogmatici e assolvendosi poi attraverso formalismi politically correct quali gli asterischi per le pari opportunità di genere (car*, tutt*, ragazz*,…. ) di cui riempiono le mail.

Diversità (Charles M. Schulz)

Diversità (Charles M. Schulz)

Oppure accade che altre realtà nate per promuovere forme diverse di pianificazione e gestione del territorio e del paesaggio, invece di cercare intorno a sé o in altri paesi esempi di buone pratiche da condividere e promuovere, sconfinino oltre i limiti che si erano dati, e affidino (per inerzia mentale, per comodità, per timore reverenziale, per mancanza di immaginazione o chissà che altro) l’elaborazione dei propri principi e ideali a noti cementificatori più o meno pentiti, ad archistar, a baroni universitari a personaggi televisivi, tradendo così sul nascere lo spirito di innovazione della propria ricerca, della propria proposta.

Oppure capita addirittura che giardini condivisi, nati come luoghi gestiti da amici, vicini, cittadini appassionati costituitisi in gruppo per prendersi cura di uno spazio di natura e coltivare fiori e ortaggi, ma anche relazioni e integrazione sociale,  finiscano poi, con la scusa  di “autofinanziarsi”, per perdere di vista i limiti di coerenza, vendendo i propri ortaggi all’albergo a cinque stelle che, proprio accanto a loro, ha un immenso parco debitamente recintato e destinato unicamente ai propri facoltosi clienti.

Se è vero allora che, come sostiene Latouche, la cultura moderna è caratterizzata dall’illimitatezza, e che “darsi dei limiti è il gesto che distingue la civiltà dalla barbarie” (Serge Latouche, Limite, Bollati Boringhieri  2012), da tutte queste storture solo una moltitudine di persone dimesse può salvarci: persone capaci di dare vita ad una reale rivoluzione attraverso la rinuncia e il senso del limite come forma di dissenso.

Dimissioi (hobbs)

Dimissioni (Hobbs)

Peccato che dimettersi  inizi con la “d” e non con la “r”: sarebbe potuto diventare un nuovo fondamentale obiettivo da aggiungere alle “8R” della decrescita!


Autunno, stagione di decrescita

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Se io preferisco tanto l’autunno alla primavera,

è perché in autunno si guarda il cielo – in primavera la terra.

 Søren Kierkegaard

Amo l’autunno, come un tempo amavo la primavera. Sarà una questione di età, di prospettive che si accorciano come le giornate, di colori che riscaldano i primi geli dell’inverno che si avvicina.

Trovo che questa stagione emani una grande serenità: nella festa di colori che inondano i paesaggi, nella ricchezza degli ultimi frutti, nella leggerezza con cui le foglie si lasciano cadere.

Questa  mezza stagione, come la mezza età, è un periodo ricco di contrasti, carico di una bellezza dirompente, non tanto perchè piena di aspettative inespresse come in primavera, ma, al contrario, perché matura di esperienze vissute.

 In autunno lo splendore dell’anno non è ancora finito, e nello stesso tempo non c’è più l’urgenza del crescere, dell’andare a frutto. La routine viene per un attimo interrotta da una festa di colori abbaglianti, da cieli cristallini su cui si stagliano toni di rosso acceso, quello che i giardinieri più raffinati  rifuggono in tutte le altre stagioni, ma che in autunno esaltano per illuminare gli angoli più belli dei loro giardini.

L’opulenza della natura si manifesta in un tripudio di forme e di colori che porta l’annuncio che la stagione dell’abbondanza è finita, che è arrivato il tempo della lentezza, della sobrietà, del risparmio energetico. Gli alberi spogliandosi si mettono a riposo, le foglie si riciclano per dare nutrimento alle nuove generazioni.

Un insegnamento di bellezza e grazia che Henry David Thoreau ha colto e racchiuso in un brevissimo saggio dal titolo Autumnal tints, recentemente tradotto da Chiara Gallese, in cui celebra la “fiera annuale” della Natura, il “festival di Ottobre” che “non costa fuochi, né suoni di campane” ma nel quale “ogni albero è un polo della libertà vivente su cui sventolano mille bandiere luminose” (H.D. Thoreau Tinte Autunnali, Galassia Arte ed., 2012).

 Ottobre

“Ottobre è il mese delle foglie colorate. Il loro ricco bagliore lampeggia ora in giro per il mondo. Come i frutti e le foglie, e il giorno stesso, acquisiscono una colorazione luminosa poco prima di cadere, così l’anno si avvicina al suo tramonto. Ottobre è il suo cielo al tramonto, Novembre è il tardo crepuscolo”.

La maturazione delle foglie

“I più sembrano confondere le foglie che hanno cambiato colore con quelle secche, come se confondessero le mele mature con quelle marce. Penso che il cambiamento del colore di una foglia in uno di grado più elevato sia la prova che essa è arrivata a una tarda e perfetta maturazione, in risposta alla maturazione dei frutti (…). In generale, ogni frutto, maturando, e poco prima di cadere (…) acquisisce una tinta luminosa. Così fanno le foglie. I fisiologi dicono che ciò è dovuto ad un maggiore assorbimento di ossigeno. Questa è la considerazione scientifica del problema (…). Ma io sono più interessato alla guancia rosea di quanto non lo sia a sapere con quale dieta particolare si sia nutrita una fanciulla”.

La fitolacca

“A quale perfetta maturazione arriva! E’ l’emblema di una vita di successo conclusasi con una morte non prematura, che è un ornamento per la Natura. Se fossimo noi a maturare così perfettamente, radici e rami, ardenti nel pieno della nostra decadenza, come la fitolacca!”.

 Bellezza

“Ogni umile pianta, o erba, come la chiamiamo noi, è lì per esprimere un nostro pensiero o stato d’animo, eppure quanto tempo rimane lì invano! Avevo camminato su quei Grandi Campi in agosto così tante volte, e non mi ero ancora accorto con chiarezza che lì avevo queste compagne viola. (…) La bellezza e la vera ricchezza sono sempre così a buon mercato e vengono disprezzate. Il paradiso potrebbe essere definito come il luogo che gli uomini evitano. Chi può dubitare che queste piante, che l’agricoltore dice non essere affatto importanti per lui, trovino qualche ricompensa nel fatto che voi le apprezziate?” .

L’acero rosso

“Alcuni alberi singoli, tutti di un rosso scarlatto, visti in confronto ad altri della loro specie ancora verdi brillanti, o in confronto ai sempreverdi, sono più memorabili di quanto saranno mai boschi interi. Com’è bella ogni foglia, quando un intero albero è come un grande frutto scarlatto pieno di succhi maturi, dal ramo più basso all’apice più alto, tutto raggiante, soprattutto se si guarda verso il sole? Quale oggetto più straordinario ci può essere nel paesaggio? Visibile per chilometri, troppo bello per essere vero”.

I colori degli alberi

Per bellezza e varietà alcuna coltura può essere paragonata a questo. Qui non c’è solo il giallo semplice del grano, ma quasi tutti i colori che conosciamo, non escluso il blu più luminoso: l’acero che diventa presto rosso, il sommaco velenoso ardente di scarlatto per i suoi peccati, il color cenere del gelso, il ricco giallo-cromo dei pioppi, il rosso brillante del mirtillo, con cui è dipinta la parte posteriore delle colline, come quella delle pecore”.

Cimiteri di foglie

“E’ piacevole passeggiare sopra i letti di queste foglie fresche, croccanti e fruscianti. Come vanno splendidamente alle loro tombe! Con quanta delicatezza si sdraiano e diventano terriccio! (…) Esse ci insegnano come morire. Ci si chiede se potrà mai venire un tempo in cui gli uomini, con la loro vantata fede nell’immortalità, giaceranno con altrettanta grazia e maturità – con una tale serenità da estate di San Martino si spoglieranno dei loro corpi, come fanno con i loro capelli e le unghie”.

Foreste e giardini

“Se desideri contare le querce scarlatte fallo ora. In una giornata limpida sta’ dunque sulla cima di una collina nei boschi, un’ora prima del tramonto, e tutte nel raggio della tua vista, tranne nella parte occidentale, saranno rivelate.(…) Guardando verso Ovest, i loro colori si perdono in tripudio di luce, ma in altre direzioni, l’intera foresta è un giardino fiorito, in cui queste rose tardive bruciano, alternandosi al verde, mentre i cosiddetti “giardinieri”, camminando qua e là, forse, sotto, con la vanga e un secchio d’acqua, vedono solo alcuni astri in mezzo a delle foglie secche.

Questi sono i miei astri della Cina, i miei fiori da giardino tardivi. E mi costa nulla per un giardiniere. (…) Guarda solo ciò che c’è da vedere, e avrai abbastanza terra, senza scavare nel tuo giardino. Dobbiamo solo elevare un po’ il nostro sguardo, per guardare tutta la foresta come un giardino. (…) A confronto il nostro giardino è su piccola scala – il giardiniere sta ancora curando alcuni astri tra le erbacce secche, ignaro degli astri e delle gigantesche rose, che, per così dire, lo oscurano e non chiedono le sue cure. (…) Perché non avere una vista più elevata e più ampia, passeggiare nel grande giardino, non nascondersi in un suo angolo un po’ “debosciato”? Perché non considerare la bellezza della foresta, e non soltanto di alcune erbe rimosse?

(…)Rendi il tuo cammino un po’ più avventuroso; sali sulle colline.

Vedere/guardare

“Gli oggetti si nascondono alla nostra vista, non tanto perché sono fuori dalla portata del nostro raggio visivo, quanto perché non portiamo le nostre menti e gli occhi a relazionarsi con loro(…) La maggior parte dei fenomeni della Natura sono per questo motivo a noi nascosti per tutta la vita. Il giardiniere vede solo il giardino del giardiniere. Anche qui, come in economia politica, l’offerta risponde alla domanda. La Natura non getta le perle ai porci.

C’è tanta bellezza visibile a noi nel paesaggio quanta siamo pronti ad apprezzarla, non un granello di più “.


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