Athos è un amico, da sempre. Il suo ultimo libro “La bicicletta e l’arte di pensare. Cicloturismo filosofico in Val d’Orcia”, (edizioni Effegi) l’ho letto perché me lo ha regalato, e perché si leggono sempre i libri degli amici. Ma poi è successo qualcosa.
Come una lenta salita in bicicletta, la lettura mi ha appassionato, tramutando lo sforzo di entrare in me stessa (e di pormi domande da tempo sopite), nella soddisfazione di mettermi in discussione, di intravedere risposte, come quando “un bel panorama o un nuovo incontro premiano la fatica del ciclista”.
Il libro è molte cose insieme: un “giro ciclistico intorno all’uomo”, un appassionato dialogo con molti dei più grandi filosofi e pensatori, una guida anomala, ma indiscutibilmente originale, della Val d’Orcia.
Non è decisamente un libro sul paesaggio, eppure l’autore parte spesso da questo, e a questo ritorna, nelle sue divagazioni sul “mistero umano, con i suoi pensieri da scalare, le sue paure da percorrere, i suoi tortuosi sentimenti da visitare”.
Ma questo non parlare di paesaggio o meglio di parlarne dal di fuori, offre importanti spunti di riflessione a chi voglia coglierli, forse proprio perché non intenzionali, o perché riferiti ad un universo più ampio.
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(Foto di Athos Turchi)
La bicicletta, il mezzo scelto per questo “turismo filosofico”, è senz’altro accattivante, perchè rappresenta un mezzo “elegante e discreto” col quale muoversi, sicuramente intorno all’uomo, ma anche nel paesaggio: infatti “la sua silenziosità non ostacola il divagare dei pensieri, non limita lo sguardo, non ti separa dal mondo”.
Le riflessioni ciclo-filosofiche dell’autore, inoltre, hanno inizio all’ombra di una quercia (o “querce”, come si usa dire ancora oggi nella campagna toscana). Una strana coincidenza, se consideriamo il fatto che presso molti popoli la quercia era ritenuto un albero sacro, un luogo magico di connessione tra cielo e terra.
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(foto di Athos Turchi)
Il pensiero divaga dunque alla ricerca di risposte, mentre le gambe spingono sui pedali e lo sguardo cerca un appiglio nel panorama infinito di valli, poggi e calanchi.
Paesaggio e senso della vita si incontrano, attraversando alcuni dei nodi più importanti che abitano oggi la disciplina paesaggistica, e rivelando, forse, il fondamento di una preziosa etica del paesaggio.
PAESAGGIO E PERCEZIONE
(“Paesaggio designa una parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”, Convenzione Europea del Paesaggio)
Nell’introduzione l’autore presenta il paesaggio attraversato secondo un’ottica decisamente originale: “eccola lì la val d’Orcia: creta, animali e uomini accomunati e mescolati nell’ugual destino del non senso”.
Uno dei paesaggi più conosciuti e universalmente apprezzati (dichiarato nel 2004 dall’UNESCO Patrimonio Mondiale dell’Umanità), è dunque percepito e presentato come privo di senso: solo desolata materialità, deserto di significati, arida fatica.
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(foto di Athos Turchi)
Non si può non rimanere colpiti da questo punto di vista, che si contrappone nettamente alla visione romantica, quasi irreale e fuori dal tempo della Val d’Orcia, che siamo abituati a vedere sulle cartoline e che tanto piace ai turisti stranieri.
L’autore si immedesima infatti nel vecchio contadino, incontrato sulla via, che spinge il carro trainato dai buoi, le cui ruote affondano impietose nella creta molle di pioggia. E prova a dare voce al sentimento di chi, su quella creta, ha speso la propria vita, non per creare il paesaggio che noi vediamo, ma semplicemente per sopravvivere.
Spesso siamo portati a far prevalere nella “percezione” del paesaggio, la componente di nostalgia che ci fa interpretare tutto ciò che appartiene al passato come bello, giusto, in ogni caso migliore del presente. Fondamentale sarebbe invece promuovere la dimensione della speranza, come impegno per un futuro che prosegua e superi il passato, e che sappia coniugare la salvaguardia con la progettualità.
PAESAGGIO, BELLEZZA, SENSO
(“Il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni: nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana”, Convenzione Europea del Paesaggio)
L’autore, giunto nei pressi di Radicofani, descrive la bellezza del paesaggio attraversato come risultato di varietà e disordine: “l’insieme di cose diverse rendono bello il paesaggio”.
Una visione che si contrappone nettamente a certa pianificazione, che spesso si è dedicata a mettere ordine nel territorio, come se questo fosse uno scaffale, o un magazzino: le abitazioni qui, le industrie là, le arterie delle strade per connettere le varie zone, lo spazio rimanente come vuoto, talvolta riempito di verde.
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(foto di Athos Turchi)
La riflessione che nasce spontanea nell’autore/osservatore, è che quello che rende bello il paesaggio non è l’ordine ma il senso: il fatto che nel paesaggio che osservo ci sia una intenzionalità, un racconto che riesco a leggere perché parla il linguaggio della mia storia, della mia cultura; che in ciò che guardo ci siano segni che riesco ad interpretare: alcuni naturali, come un fiume o una altura, e alcuni generati dall’uomo. Segni che riconosco e a cui attribuisco un valore: storico, culturale o semplicemente affettivo.
Molti paesaggi contemporanei hanno invece perso questa capacità di raccontare, di significare qualcosa oltre la semplice funzione, e per questo saranno magari più ordinati, ma sono condannati a restare muti, e ad essere percepiti come brutti.
PAESAGGIO E CURA
(“Il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo”, Convenzione Europea del Paesaggio)
Il paradigma della cura è stato recentemente rivalutato e promosso come un diverso modello di governo della città basato sulla relazione con l’altro, e sul diritto strettamente connesso con il dovere e la responsabilità.Questi concetti sono inconsapevolmente evocati nel libro e associati allo spazio pubblico e al paesaggio, assumendo una chiarezza e un fascino particolare quando si parla di Pienza.
L’antico borgo viene infatti descritto dall’autore come “casa Pienza”, perché arrivati nel cuore del paese ci si trova in uno spazio equivalente ad un “salotto di casa”: con le sue sedute, le finestre che spaziano sulla vallata, da cui traspare una luce “brillante, ma non accecante”, il pozzo utilizzato come un soprammobile , “come fosse un vaso di fiori messo lì a profumare la sala”.
In questo salotto si può incontrare “la famiglia Pienza”, “i suoi anziani che discutono, i suoi adulti che passano indaffarati, i bambini che giocano”. Gli abitanti, dunque, percepiscono e usano lo spazio pubblico come fosse la propria casa. Perché ad esso riconoscono un senso, un valore comune che fa scattare quei sentimenti di cura, che sono ormai riconosciuti come molto più efficaci contro il degrado e l’abbandono, di molti dei vincoli o delle norme che abbondano nella nostra legislazione sul patrimonio architettonico e paesaggistico.
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(foto di Athos Turchi)
Un modo femminile di rapportarsi all’altro e all’ambiente, una vera e propria cultura di servizio che l’autore coglie pienamente nel suggestivo ricordo della propria madre: “rivedo mia mamma andare su e giù per la sua vigna che ha sempre curato con fatica, come quando ci si prende cura di un bambino. Potava gli olivi, tagliava il grano e l’erba con la stessa delicatezza con cui mi lavava o mi pettinava. Nella sua mente tutto aveva un senso unitario e tutto aveva il medesimo valore di esistere, e trattava i suoi olivi, i suoi conigli, il suo grano, allo stesso modo con cui curava i figli. Perché la vita – qualunque fosse – per lei era da amare e curare e non da sfruttare”.
PAESAGGIO E APPARTENENZA
(“Il paesaggio coopera all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea” Convenzione Europea del Paesaggio)
Arrivato alle porte di Castiglion d’Orcia , il suo paese natale, l’autore si interroga sull’esistenza di una “castigliondorcità”. La risposta è sostanzialmente affermativa: “le persone che qui sono nate e vissute hanno un qualcosa che li accomuna e li lega continuamente a questo luogo”.
Ma non è solo il senso di appartenenza, oggi ancora presente, che ha formato questa comunità, sostiene l’autore: è anche la bellezza del suo paesaggio, che ne ha plasmato il carattere e la sensibilità.
La sua percezione del paesaggio dunque, in questo luogo cambia: “sono di fronte alla Val d’Orcia, ma non è quella di prima, è un’altra cosa”. La valle priva di senso dell’introduzione si trasforma nel luogo amato della propria infanzia: “il quadro lo conosco bene, ma quanto mi piace rivederlo, ripassarlo, rileggerlo. E’ un quadro che mi parla, è un panorama col quale posso colloquiare”, perché conosco la lingua con cui è stato scritto, in esso mi riconosco, e ad esso appartengo.
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(foto di Athos Turchi)
Ma come l’abitante della val d’Orcia si riconosce nel proprio paesaggio, così questa terra “ha impresso il suo sigillo” sulla sua gente: “gli uomini di queste steppe prendono molto dalle terre che coltivano, gente umana e buona se presa per il suo verso, sennò insensibile e dura nei contrasti”. In particolare nei vecchi contadini, il volto coperto di rughe assomiglia al paesaggio delle crete spaccate dal sole, tanto che, racconta l’autore, i vecchi barbieri “per far loro la barba, gli mettevano in bocca un uovo di legno perché quelle rughe si spianassero un po’ per farci passare il rasoio”.
CONCLUSIONI PAESAGGISTICHE
La gita “cicloturistica” giunge al suo termine raggiungendo non la risposta, ma “una verità in dialogo”, a partire dall’amore per l’altro e dalla cura come fondamento del senso dell’esistenza: “ quindi il bene sta nella comunione reciproca e nella reciproca cura (…). Da ciò ne consegue che la norma e il criterio dell’agire – e dunque della morale – è il bene dell’altra persona”.
Parafrasando l’autore in termini paesaggistici si potrebbe quindi dire che la norma e il criterio della pianificazione dovrebbe essere la cura del paesaggio. Per dare finalmente vita ad una urbanistica paesaggista che sappia assumere ambiente e paesaggio come condizione imprescindibile senza la quale non esiste senso, non esiste sviluppo, non esiste città.
Una sorta di agostiniano ama il paesaggio, e fai quello che vuoi!
P.S. Su alcune posizioni esposte nel libro non siamo d’accordo. Athos lo sa, ma è un amico e se ne parla, ci si confronta.