Non so se esistano nei vari dialetti dell’Alto Adige diverse parole per indicare la mille gradazioni di verde che contraddistinguono i paesaggi alpini, così come la leggenda metropolitana vuole che gli Inuit abbiano un centinaio di vocaboli per descrivere la neve (….lo so, è una bufala, ma è un peccato che non sia vero!).
Certo è che chi abita qui, o semplicemente vive in questi luoghi per qualche settimana l’anno, sa che il semplice aggettivo “verde” è del tutto insufficiente a dare ragione delle mille sfumature di prati, campi, laghi, boschi, orti che si rincorrono e si sovrappongono per queste valli.
E’ una cosa che non smette di stupirmi, e che ogni anno rinnova la meraviglia di sentirmi a casa in un posto che non è casa mia, di identificarmi in un paesaggio che non è il mio ambiente di vita, di appartenere a un luogo che non mi appartiene.
Quassù io sono turista: uno dei tanti estranei che sotto le più diverse forme ogni estate invadono queste valli alla ricerca di qualcosa. Il sociologo Erik Cohen li ha suddivisi in due diverse categorie: il sightseer, attratto dalle novità e da esperienze sempre diverse e il vacationer, che al contrario ricerca la tranquillità, il comfort, il riposo.
In ogni caso corpi estranei, che chiedono a questi luoghi di essere autentici e nello stesso tempo conformi ai loro desideri, corrispondenti all’immagine che si sono costruiti.
Di queste montagne io amo la pace, la luminosità, i cieli, l’aria, i paesaggi . Mi piace ritrovare ogni anno i campi di fieno tagliati, gli orti curati accanto ai masi, le mucche che pascolano in alta montagna, le rocce che fanno da scenario.
Tutti elementi che sembrano semplicemente connaturati in questi luoghi, ma lasciando per un attimo lo sguardo forestiero del turista mi chiedo invece quale fatica, quali lotte, quali rinunce e quali aspirazioni ci sono dietro questi paesaggi che ci incantano?
Un recente studio dell’Università di Vienna ha messo ad esempio in luce come il criticato istituto del “maso chiuso” presente in Alto Adige, sia in realtà uno dei motivi per cui su queste montagne si è conservata negli anni una fiorente agricoltura (http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/cronaca/2010/11/15/news/il-maso-chiuso-che-salva-l-agricoltura-1.3865950).
La dura legge del Maso, infatti, che pone le sue fondamenta nella famiglia patriarcale, e nel diritto di successione che assegna l’intera proprietà agricola familiare al solo primogenito maschio (per legge negli anni passati e recentemente per consuetudine), se da un lato ci appare socialmente deprecabile, dall’altro rappresenta uno dei motivi per i quali l’agricoltura ha potuto mantenere in vita i paesaggi che ci attraggono. Il Maso, infatti, non potendo per legge essere frazionato, favorisce la continuità nel possesso e assicura alla famiglia intestataria una rendita adeguata e costante, consolidando nel tempo il vincolo con la terra.
Dove invece l’eredità dell’azienda familiare è stata frazionata e suddivisa in parti uguali fra i figli, l’equità sociale è stata salvaguardata, ma molti agricoltori hanno abbandonato i campi, trasferendosi in città.
Che dire poi delle splendide distese di prati impervi degli alpeggi in quota, risultato della consuetudine di portare il bestiame, nei mesi tra la tarda primavera e l’estate, a pascolare nei pascoli di alta montagna? Pratica insostituibile nei secoli per l’allevamento del bestiame e la produzione casearia locale, oggi fondamentale anche per la conservazione del paesaggio, della biodiversità e di conseguenza del turismo.
Salendo in passeggiata sopra i 2000 metri si incontra ancora qualche malga abitata per i mesi estivi da pochi anziani e da ancor meno giovani, assetati delle poche chiacchiere da barattare con i turisti di passaggio, in cambio di un po’ di cacio o di burro rancido.
Sono questi gli ultimi esemplari di quelli che il giornalista Aldo Gorf chiamò “eredi della solitudine” nella sua inchiesta degli anni Settanta corredata dalle immagini di Flavio Faganello, sui masi di montagna del Sud Tirolo, dove descrisse le condizioni di isolamento e marginalità di intere famiglie, il loro microcosmo economico autosufficiente immutato nei secoli e l’incolmabile abisso che separava “questo misconosciuto terzo mondo dal nostro smog quotidiano” (Aldo Gofer, Flavio Faganello, Gli eredi della solitudine. Viaggio nei masi di montagna del Tirolo del sud, Arti Grafiche Saturnia, Trento 1974).

Il maso Vorra negli scatti di Flavio Faganello (1972) (foto http://cipputi-antichimestieri.blogspot.it/2011/11/i-masi-di-sankt-martin-am-kofel-in-val.html#.UiC-YJLwmSo)
Molte cose sono cambiate da allora, altre non poi così tanto: certo è che i paesaggi tanto amati da noi turisti sono stati (e in parte sono ancora) frutto di abnegazione e ostinata tenacia degli abitanti della montagna.
Nel tempo le strade hanno preso il posto degli impervi sentieri che collegavano a valle, l’isolamento è stato sconfitto da televisione e internet, il vecchio si è mischiato al nuovo, ma la vita in montagna rimane comunque dura, anche se oggi, a differenza di ieri, andarsene è possibile.
Il mutamento decisivo, infatti, capace di incidere più di ogni altra cosa sul futuro di questi luoghi, sta proprio nella possibilità di scelta, come hanno messo in evidenza Francesco Bocchetti e Gianni Zotta, che a trentacinque anni di distanza hanno ripercorso le vecchie strade dei masi calcate da Gorfer e Faganello mettendone in evidenza continuità e cambiamenti (Francesco Bocchetti, Gianni Zotta, Sudtirolo. Il cammino degli eredi, Professionaldreamers, Trento 2010).

L’aspetto odierno del maso Vorra. Ora è possibile arrivare coi mezzi agricoli dentro il fienile, esiste una teleferica di servizio, i bambini vengono accompagnati in auto fino alla funivia da dove scendono per andare a scuola a Laces (foto http://cipputi-antichimestieri.blogspot.it/2011/11/i-masi-di-sankt-martin-am-kofel-in-val.html#.UiC-YJLwmSo)
Chi potrà fermare infatti, o anche solo biasimare, gli agricoltori, i malgari, i pastori, se sceglieranno di scendere a valle, attratti da quella vita “migliore” che hanno visto in televisione e su internet, dalla nostra vita, che ogni estate proviamo a lasciarci alle spalle, almeno per un momento, salendo qui in montagna?
Inoltre pochi chilometri di strada, qualche chilometro di filo elettrico e di tubature, “hanno restituito il mondo agli abitanti di montagna”, ma hanno tolto loro l’autonomia. Adesso per vivere devono guadagnare, per guadagnare devono lavorare e il lavoro retribuito si trova solo a valle.
Ma soprattutto oggi esistono alternative alla vita del maso, al silenzio, alla solitudine, alla fatica. E la strada che porta in città, neanche a dirlo, è tutta in discesa.
Quale sarà il futuro dei paesaggi alpini è difficile da prevedere: certo è che turisti e locali, cittadini e montanari sono indissolubilmente legati, necessari gli uni agli altri, uniti in un mondo ormai senza confini, nel quale modernità e tradizione devono cercare la giusta declinazione per poter convivere.
Resta la speranza di poter tornare ogni anno su queste montagne a godere delle mille sfumature di verde, perché, come sostiene Enrico Camanni nella prefazione al libro di Bocchetti e Zotta:
“ il futuro non prevede solo viaggi dall’alpe verso la città. Le Alpi e i masi che verranno possono contemplare anche viaggi e incertezze in senso contrario, di migranti che scelgono la montagna per necessità, oppure di gente satura di città che decide di salire alla ricerca di quegli stessi valori (o disvalori) che generavano la fuga dei valligiani.
(…) dopo aver sperimentato i limiti dell’urbanizzazione si può cambiare prospettiva, leggendo nel mondo di ieri i segni del domani”.
