Fino dalle elementari ci hanno insegnato che la “tundra” è una formazione vegetale tipica delle regioni artiche, caratterizzata dalla mancanza di alberi, la cui crescita risulta impossibile a causa delle temperature troppo basse, che mantengono il suolo perennemente ghiacciato (il cosiddetto permafrost).
Uniche presenze vegetali: muschi, licheni e qualche basso cespuglio, misero cibo per gli sfigati lemming e per le renne, che sole contribuivano (grazie all’evocazione del gioioso clima natalizio), a renderci un po’ più allegro il desolato quadro d’insieme illustrato nel sussidiario.

Mappa della tundra: ecozona tipica delle regioni Artiche del Nord America e dell’Eurasia (Fonte: http://arcticstudies.pbworks.com/w/page/13623330/Tundra)

Tundra con renna (Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:20070818-0001-strolling_reindeer.jpg)
Da qualche tempo però non è più così! Uno studio condotto da scienziati del Biodiversity Institute dell’Università di Oxford e dell’Arctic Center dell’Università degli Studi della Lapponia, ha evidenziato la crescente presenza di alberi in aree dove appena qualche decennio fa era inimmaginabile anche solo pensare di trovarli.
I cambiamenti climatici, ed in particolare il riscaldamento globale, hanno infatti dato origine ad un curioso fenomeno che è stato definito “pop-up forests”: grazie alle temperature sempre meno rigide, i piccoli cespugli di salice ed ontano presenti nella tundra, si sono rapidamente trasformati in alberi, dando origine a veri e propri boschi e stravolgendo studi e previsioni degli scienziati.

Pop up forests (http://www.climatewatch.noaa.gov/article/2012/shrub-takeover-one-sign-of-arctic-change)
“La velocità e l’entità della variazione osservata è molto più grande di quanto ci aspettassimo”, ha dichiarato infatti il professor Bruce Forbes del Centro Artico dell’Università della Lapponia. Contemporaneamente il dottor Marc Macias-Fauria presso la Oxford University, ha sottolineato che in passato si era ipotizzato “che la tundra sarebbe stata colonizzata dagli alberi della foresta boreale del sud dell’Artico col procedere del riscaldamento globale, un processo che avrebbe potuto richiedere secoli. Ma quello che abbiamo trovato è che gli arbusti che sono già presenti si stanno trasformando in alberi nel giro di pochi decenni. (Andrew C. Revkin , Warming Arctic Tundra Producing Pop-Up Forests, http://dotearth.blogs.nytimes.com/2012/06/03/warming-arctic-tundra-producing-pop-up-forests/)
L’elemento più sorprendente che emerge dallo studio è dunque la rapidità degli ecosistemi posti nelle regioni dell’estremo Nord, di reagire localmente ai cambiamenti climatici globali, innescando a loro volta fenomeni nuovi che riguardano una serie interrelata di fattori, la cui evoluzione è difficile da prevedere.

Cambiamenti nella tundra siberiana negli ultimi 40 anni (Fonte: http://www.climatewatch.noaa.gov/article/2012/shrub-takeover-one-sign-of-arctic-change)
L’insorgere dei boschi, infatti, non cambierà solo il paesaggio, ma è possibile che possa contribuire ad alterare in modo significativo le condizioni biotiche e abiotiche all’interno della regione.
L’estensione della superficie coperta da latifoglie, infatti, verosimilmente porterà ad un ulteriore riscaldamento locale, a causa dell’assorbimento della luce solare, che in precedenza veniva riflessa dalla bianca tundra, da parte delle chiome scure degli alberi. Allo stesso tempo, però, l’estendersi delle foreste, porterà ad un aumento dell’assorbimento della CO2 presente nell’atmosfera.
Ma quale sarà il fenomeno che prevarrà, nessuno è in grado di dirlo.
Probabilmente assisteremo a fenomeni completamente nuovi nell’area, come gli incendi boschivi, mentre poco più a sud è già in atto una massiccia infestazione di insetti (anche questa dovuta al riscaldamento globale), che sta uccidendo gli alberi delle foreste boreali. (http://www.fao.org/news/story/it/item/46063/icode/)
Altro fenomeno in corso di studio è la recente comparsa nella regione Artica di passeriformi migratori, che con la loro presenza hanno alterato il paesaggio sonoro dell’area.
Natalie Boelman, una ecologa degli ecosistemi al Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University, ha infatti evidenziato come, sempre a causa dell’effetto del riscaldamento globale e della crescente presenza di alberi e di insetti, questi uccelli tendano a spingersi molto più a Nord che in passato, riempiendo di nuovi suoni il silenzioso ambiente polare. (http://www.polarfield.com/blog/tag/natalie-boelman/)

Natalie Boelman’s birds project: “The impact of climate warming and changing seasonality, on the interactions among vegetation, insects and songbird communities in an Arctic tundra ecosystem, on the North Slope of Alaska” (http://www.ldeo.columbia.edu/~nboelman/Bird_Project/Home.html)
Come non ripensare al famoso “Silent Spring”, il saggio della biologa Rachel Carson apparso nel 1962 e universalmente riconosciuto come l’innesco del movimento ecologista contemporaneo.
Allora la drastica diminuzione della popolazione degli uccelli ipotizzata dall’autrice, basata su studi scientifici relativi all’impatto dell’uso de DDT in agricoltura, oltre a prefigurare primavere silenziose, mise in evidenza le conseguenze imprevedibili dell’uso indiscriminato di prodotti chimici.

“‘Silent Spring’ Is Now Noisy Summer”, New York Times 22 July 1962.
(http://www.environmentandsociety.org/sites/default/files/styles/popup/public/nyt-headline_0.jpg)
Oggi il canto degli uccelli in aree dove non era mai stato udito prima, mette in guardia il mondo dagli effetti interrelati e complessi del riscaldamento globale.
Ancora, oggi come allora, c’è chi minimizza e parla di catastrofismo, continuando ad ignorare la grande verità che il buon senso comune in passato, e la scienza nell’ultimo secolo, hanno ormai ampiamente dimostrato: il fatto incontrovertibile che “tutto è connesso”.
E se improvvisamente gli alberi appaiono nella tundra, e gli uccelli cantano nelle estreme regioni del Nord, non è un fatto che riguarda solo le renne e gli sfigati lemming.
